Tabù alimentari e stereotipi: dal consumo di cani e gatti alle leggende metropolitane
Tabù alimentari e stereotipi: dal consumo di cani e gatti alle leggende metropolitane
“A Springfield, mangiano i cani! Le persone che sono arrivate mangiano i gatti… mangiano gli animali da compagnia dei residenti. Ecco cosa accade nel nostro Paese!”. È quel che ha detto Donald Trump durante il dibattito elettorale con Kamala Harris, nella sera del 10 settembre 2024 a Philadelphia, uno dei momenti più attesi della campagna presidenziale statunitense che si concluderà con il voto del prossimo 4 novembre.
Negli ultimi tre anni la città di Springfield, nell’Ohio, ha visto l’arrivo di circa 15.000 immigrati haitiani, su una popolazione residente di 58.000 abitanti. Inevitabilmente, un afflusso così imponente e rapido di persone ha trasformato la città: da un lato si è registrata una ripresa economica, ma dall’altro sono emerse anche nuove sfide. C’è stato un aumento della domanda di alloggi e servizi sociali, ma anche una crescita di accuse e tensioni, alimentate soprattutto dal campo trumpiano, sebbene puntualmente smentite dalle autorità locali.
Quella degli immigrati che mangiano gli animali da compagnia è una falsa informazione che è stata subito smentita in diretta dai moderatori del dibattito; tuttavia, accusare gli stranieri di mangiare gli animali domestici non è una novità. E allora da dove nasce questa vera e propria leggenda metropolitana?
Come ricordano gli storici francesi Jeanne Guérout e Xavier Mauduit nella loro “Histoire des préjugés” (Storia dei pregiudizi), alla fine del XIX secolo il mito dello straniero che mangia animali domestici fu usato dagli occidentali per emarginare i cinesi. In quell’epoca, infatti, l’Europa temeva la crescente concorrenza economica cinese, alimentando così la paura del cosiddetto “pericolo giallo”. Sempre più sinofobi, gli europei cominciarono a far circolare un nuovo pregiudizio, ma questa volta alimentare, ossia che i cinesi mangerebbero i cani.
Si tratta di una informazione che sconvolge gli occidentali, a cui importa poco che tale alimentazione canina non sia altro che un aneddoto in Cina. Per gli europei di quel tempo, mangiare un cane non è altro che l’espressione della “barbarie” dei cinesi. Ed è, infatti, proprio in quegli anni di fine Ottocento che in Europa nascono le prime associazioni di protezione degli animali. Parallelamente, questa costruzione pregiudiziale permette anche di giustificare l’intervento “civilizzatore” delle grandi potenze coloniali.
Si tratta di un lampante esempio della nostra relazione con degli esseri non-umani, cioè gli animali d’affezione, che è simile a un prisma, attraverso cui possono essere create svariate identità collettive, nel senso che permette di definire un “noi” da un “loro”: “Noi abbiamo un rapporto affettivo con i cani e i gatti, mentre gli altri se li mangiano. Noi trattiamo questi animali come dei bambini, mentre gli altri…”.
Tecnicamente, considerare impensabile che questi “animali-bambini” possano essere cibo è un “tabù alimentare”. La “cinofagia” (il consumo di carne di cane, ad esempio presso gli antichi Galli) e la “ailurofagia” (il consumo di carne di gatto, dal greco ailuros, gatto, e phagein, mangiare) sono pratiche alimentari presenti in alcune culture, ma considerate tabù in molte altre.
Un tabù alimentare è una pratica sociale e culturale che vieta o scoraggia il consumo di determinati alimenti. Questa avversione può essere radicata in motivi religiosi (ad esempio la carne di maiale per ebrei e musulmani), motivi culturali (i bovini in India o gli insetti in Europa); motivi etici (certi animali domestici come cani e gatti, appunto), motivi sanitari (ad esempio il pesce e la carne cruda).
Come spiega Giovanni Sole in “Polpo immondo. Tabù alimentari nel mondo antico”, in alcune comunità religiose arcaiche, il divieto di consumare polpi faceva parte di una visione del mondo organizzata per coppie di opposti: sacro e profano, puro e impuro, lecito e illecito. I cibi non erano vietati per motivi legati alla salute fisica o spirituale, ma per soddisfare la necessità di dare ordine alla realtà. L’octopus, oltre a simboleggiare i vizi e i difetti umani, veniva visto come una creatura mostruosa, legata al male e alla distruzione. Per questo le storie di polpi enormi, spaventosi e insaziabili, avevano tanto successo: avevano una funzione sociale precisa, ossia rafforzare la fede, consolidare la coesione del gruppo e stabilire regole a cui tutti dovevano conformarsi.
Nel caso dei tabù etici e culturali, ai nostri giorni il divieto di consumare specifici animali può essere dovuto al legame affettivo, poiché nella nostra società cani e gatti sono spesso considerati membri della famiglia, oppure al benessere animale, dato che negli ultimi decenni la sensibilità animalista è particolarmente cresciuta nella nostra parte di mondo. Questo ci mostra che non tutti i tabù alimentari sono universali: ciò che è considerato un tabù in una cultura può essere accettato in un’altra. Inoltre, i tabù alimentari possono cambiare nel tempo: le norme sociali e le tradizioni culturali evolvono, e ciò che era vietato o accettabile in passato potrebbe non esserlo più in futuro.
Il caso del consumo di carne di cane in Cina, Corea del Sud e Vietnam è reale, sebbene marginale e in declino nelle città e tra le giovani generazioni: risale a secoli fa ed è legato a credenze tradizionali e usanze in località molto specifiche e circoscritte. La sua notorietà in Occidente è un caso emblematico di sovraesposizione dovuta a stereotipi, sensazionalismo e generalizzazioni.
Similmente, in Italia è molto noto lo stereotipo secondo cui a Vicenza ci si cibi di carne di gatto: è una tipica leggenda metropolitana, priva di fondamento e diffusa per screditare una comunità, talvolta per rivalità tra città o regioni. Forse in periodi di povertà, carestie e guerre sarà capitato che, per fame, qualcuno si sia cibato di questi animali, ma non esistono prove storiche che ne attestino la pratica consueta e diffusa.
Evidentemente, le categorie dei tabù alimentari sono costruzioni arbitrarie, poiché sia il cane che il gatto, come ogni altro animale, possono essere considerati fonti di nutrimento. La distinzione dipende dalla linea sottile che tracciamo tra la percezione dell’animale come “animale-bambino”, ossia parte della sfera affettiva e familiare, e quella di “animale-materia”, ridotto a oggetto di consumo. Queste oscillazioni culturali non sono nuove e risalgono già all’Impero Romano, dove il crudo veniva associato alla natura selvaggia e al barbaro, mentre il cotto rappresentava la civiltà. Un’opposizione che Claude Lévi-Strauss, uno dei più influenti pensatori del Novecento, ha teorizzato come fondamentale per comprendere i sistemi simbolici delle società umane. Questa riflessione ci spinge a interrogare continuamente i confini delle nostre abitudini alimentari, rivelando quanto profondamente esse siano radicate nelle strutture culturali che ci definiscono.
NB: Questo articolo inaugura la mia rubrica su “Positano News” intitolata “Il mondo in tasca”, uno spazio in cui esplorerò temi legati alla cultura, alla società e alle curiosità del mondo contemporaneo. Desidero ringraziare il direttore Michele Cinque e l’intera redazione per l’ospitalità e la fiducia nel permettermi di condividere le mie riflessioni con i lettori.