
Riceviamo e pubblichiamo un bello scritto ricco di ricordi di Marco Volpicelli, archietto, romano e assiduo frequentatore di Massa Lubrense da circa sessantacinque anni
Vervece 1974, io c’ero
Ho visto per la prima volta lo scoglio Vervece, con i contorni di Ischia e di Procida che spiccavano dietro all’orizzonte, all’età di due anni, dalla grande finestra del soggiorno della villetta che mio nonno fece costruire nel lontano 1959 a Massa Lubrense in località San Montano.
Erano gli anni del boom economico e delle seconde case, quasi sempre al mare, dove vi si trascorreva l’intero intervallo temporale tra la fine di un anno scolastico (inizio giugno) e l’inizio del successivo (inizio ottobre); quattro mesi di vacanze! Ciò era possibile essendo allora la maggior parte delle famiglie monoreddito e io passavo così l’intera estate con la mia
mamma e i miei due fratelli maggiori, mentre papà, che rimaneva in città a lavorare, ci raggiungeva nei weekend e durante il suo breve periodo di ferie estive.
Nei primi anni sessanta mio padre commissionò al cantiere F.lli Aprea di Marina Grande a Sorrento la costruzione di un gozzo: nacque così il “San Marco” (il nome non fu un caso), un gozzo di m.7,30 nello stile classico sorrentino. Poi, lo stesso anno, acquistò a Roma, da Frinchillucci se ben ricordo, alcune centinaia di metri di “tremaglio” in spezzoni di diversa
taglia con maglie più o meno grandi: erano le prime in nylon. Fino ad allora le reti erano infatti di cotone e per resistere meglio alla salsedine venivano impregnate di catrame che gli
conferiva quel colore rosso ruggine, come ancora si può notare in alcune cartoline d’epoca raffiguranti il molo dei pescatori con le reti stese ad asciugare. Lui aveva già un discreta pratica di mare, avendo frequentato da giovane Terracina dove possedeva una lancia di circa 6 m. dotata di vela latina; ma, non avendo esperienza di questo tipo di pesca, si affidò per gettare le reti a mare dapprima ad Antonio Amoruso, poi a Salvatore De Gregorio (Tatore ra marina), sostituito a volte dal cognato (Papiello). Tutti di Marina della Lobra.
Io ero ancora piccolo e partecipare alla calata delle reti all’imbrunire non mi era concesso; ma al loro recupero, la mattina successiva, invece sì anche se non sempre. Spesso l’affetto
paterno impediva a mio padre di svegliarmi alle 6 di mattina vedendomi dormire profondamente. Una cosa però mio padre la sapeva e bene: se non mi avesse svegliato, gli avrei tenuto il muso per l’intera giornata. Le volte che mi destava o che ero già in allerta per non perdermi l’opportunità, si raggiungeva il porticciolo e si saliva a bordo del gozzetto di Salvatore. In quell’epoca i gozzi da pesca (in porto c’erano quasi solo quelli, il boom della nautica non era ancora scoppiato) avevano il dritto di prua slanciato e lungo, in verticale, con su fissati un ramoscello di olivo benedetto e il santino con l’immagine della Madonna della Lobra. Iniziava poi un cerimoniale; sì, perché per accendere il piccolo motore diesel di appena una decina di CV a raffreddamento ad aria, era necessario riscaldarlo appiccando un piccolo fuoco con alcuni fogli di giornale. Una volta partito, col suo tipico rumore assordante e scoppiettante, si faceva rotta in direzione di uno dei galleggianti (di sughero tinteggiato bianco, non di plastica tantomeno di polistirolo!) della rete, con i remi lasciati in acqua a scivolare dolcemente sulla superficie. Spesso la rete veniva calata sulla secca di S. Anna davanti alla Chiaia, a volte davanti al “Delfino”, davanti Mitigliano, ma a volte, quando condizioni del tempo e le correnti lo consentivano, al Vervece. Ricordo infatti che prima della calata della rezza, il buon Salvatore gettava in acqua uno straccio di cotone bianco per individuare la direzione e l’intensità della corrente man mano che scendeva in profondità. Se si fosse commesso l’errore di calarla sopravvento, la rete si sarebbe impigliata alle rocce e rimasta lì sotto. La profondità della calata poteva raggiungere infatti i quaranta/cinquanta metri o anche più e all’epoca non c’erano ancora i verricelli in alternativa alle braccia.
Quando vedevo la prua del gozzo dirigersi in direzione del Vervece, beh, la mia era una gioia immensa. Il mare del Vervece rappresentava per me l’ignoto, l’inaspettato, fonte inesauribile di conoscenza di nuove forme di vita che il mare custodiva gelosamente nelle sue profondità. Raccolto il primo galleggiante, incastrato tra le rocce sull’estremità sud dello scoglio, al sorgere del sole iniziava il recupero, a braccia, della rete. Metro dopo metro, dalla mia posizione privilegiata, seduto sul bordo vicino a Salvatore, osservavo l’abisso, quel mare blu cobalto, calmo, liscio senza un filo di vento, quasi oleoso e la rete chiara che veniva su dal buio profondo. Lo sguardo fisso intento a scrutare più lontano possibile per individuare per
primo una preda rimasta impigliata: ora un’aragosta, ora uno scorfano, una cernia ma anche animali a me (e non solo) allora sconosciuti: oloturie, ofiure, stelle marine, galathee rosse,
piccoli rami di myriapora truncata, di gorgonia, etc. etc. L’ultimo tratto di rete, quello a maglie più larghe e sempre molto parsimonioso, indicava che la pesca era quasi terminata. Issato a bordo l’ultimo metro e recuperato il secondo galleggiante, si faceva rientro in porto commentando la pescata, mentre Salvatore era intento a pulire quei spezzoni di rete lasciati appositamente fuori bordo contenenti le lische di pesci mangiati dalle pulci di mare. Poi, noi tornavamo a casa con il pescato (per la gioia di mia madre che avrebbe dovuto pulire tanti piccoli esemplari pungenti di scorfano e quant’altro per preparare la zuppa di pesce) e Salvatore andava a lavorare in cantiere o a casa se domenica.
All’età di soli dodici anni, seguendo i miei fratelli maggiori, ho incominciato a immergermi con le bombole; pochi anni dopo, venuto a conoscenza dell’esistenza del Centro Immersioni
di Sorrento diretto dal grande Guido Picchetti (deceduto purtroppo a gennaio di quest’anno e ahimè poco ricordato dall’ambiente subacqueo e non), conseguii il mio primo brevetto ARA: era il 1972.
Ecco che il Vervece, divenuto ora meta di numerose immersioni, non rappresenta più l’ignoto, ma non perde certo il suo fascino. Ogni immersione riservava infatti nuove sorprese, sviluppando in me, oramai dotato di una Calypso Nikkor II con flash a lampadine, interessi sia per la biologia che per l’archeologia subacquea.
Passano appena due anni, e Vervece viene a chiamarmi. Era trascorsa appena una settimana dal fallito tentativo di Enzo Maiorca di stabilire il nuovo record di apnea a – 90 metri. Quella mattina del 28 settembre 1974 osservo da casa uno strano assembramento di piccole barche nei pressi dello Scoglio. Prendo immediatamente il binocolo e vedo ….. Maiorca! Intuisco che stesse tentando nuovamente il record, in assenza della RAI e di tutto quell’apparato caotico che contribuì forse al fallimento del precedente tentativo. Voglio raggiungerlo; l’unica barca di famiglia ancora in acqua (era oramai finita la stagione e io insieme ai miei ci stavamo preparando al ritorno di lì a poco a Roma) era una lancetta a remi (sempre F.lli Aprea) di appena m.2,80 e non a caso chiamata “Bebè”. Costringo mio padre ai remi e munito di una Leica SL con tele da 300 mm. (chiaramente sua), ci dirigiamo (tanto remava lui) su Vervece.
Oggi, col traffico di imbarcazioni che c’è e le enormi onde create, sarebbe stato impossibile; saremmo affondati appena fuori dello scoglio di Pila di Marcigliano! Dopo una ventina di
minuti di vigorosa voga, siamo lì: Maiorca è appena riemerso e riesco a scattare solo alcune foto. Vivo comunque quei momenti di ansia che gli amici e colleghi di Maiorca presenti sull’imbarcazione appoggio hanno vissuto ancora più intensamente. Poi, tutto si risolve per il meglio.
Passa un altro anno e Vervece mi chiama di nuovo. E’ in occasione della manifestazione in onore della Madonnina, posta sullo scalino a -12 m. sul versante orientale dello Scoglio.
Partecipo alla festa, collettiva, numerose le barche, presenti i rappresentanti della amministrazioni locali, delle forze dell’ordine, dei vigili del fuoco, ma anche tanta tanta gente felice di condividere quel momento. L’entusiasmo e l’euforia non mi impediscono comunque, nonostante avessi solo diciassette anni, di immortalare con la mia Nikonos e la Leica Sl (sempre di papà) alcune immagini di Enzo Maiorca, Luigi Ferraro, Claudio Ripa, Fabio Cicogna, Enrico Gargiulo, Fritz Dennerlein e della nave appoggio Jolly Secondo di Salerno.
Sono passati cinquant’anni, durante i quali ho terminato gli studi universitari, mi sono sposato, sono divenuto padre di due figlie, ho raggiunto l’età … della pensione (sia pure da
pochi mesi); eppure sembra ieri. Sono ricordi impressi nella mia memoria, indelebili.
Nello spirito con cui si festeggiano oggi i cinquant’anni di questa ricorrenza, il mio pensiero va a chi, appassionato di mare come me, purtroppo ci ha recentemente lasciato in questo
triste 2024: a Guido Picchetti, a Gaetano Cafiero, ad Antonio Fimeroni, a Claudio Ripa, a Lorenzo Corcione, a Giulia D’Angelo. A loro un grande grazie per quello che hanno fatto contribuendo in modo sostanziale alla diffusione della conoscenza, dell’amore e del rispetto per il mare. Ho sempre sostenuto infatti che si è sempre pronti a difendere solo ciò che si ama; ma si può amare profondamente solo ciò che si conosce altrettanto profondamente.
