I single in Italia non interessano alla politica
In Italia il 33% dei nuclei familiari è rappresentato dai single (Istat 2020), un dato che si affianca al 21% di coppie senza figli, al 12% di monogenitori e al 34% delle coppie con figli.
Solo un punto percentuale divide dunque i sigle dalle famiglie cosiddette “tradizionali, mentre 8 punti percentuali separano le famiglie con figli da quelle senza figli, con una prevalenza delle seconde. Dati che, di frequente, sono messi all’ordine del giorno della discussione politica – solo in ultimo nelle recenti elezioni nazionali – sottolineando le difficoltà a cui può portare una scarsa natalità nel nostro paese. Si parla di incentivi alle famiglie, alle giovani coppie, affrontando la questione sempre da un punto di vista di incentivo privato a una categoria sociale. Raramente si agisce, nel concreto, in materia dei servizi, del sostegno familiare in senso ampio, non solo al percorso privato e personale di generazione, accudimento, crescita della prole. L’approccio valoriale al tema della famiglia non ha portato, almeno negli ultimi decenni, a un effettivo miglioramento delle condizioni di natalità nel nostro paese. Nemmeno i provvedimenti di sostegno familiare realizzati negli ultimi anni – ampliamento del congedo di paternità, assegno unico per i figli ad esempio- sembrano aver influito positivamente sulla questione. Segno forse che ciò su cui occorreva agire, per garantire maggior sostegno alle nascite, non era il supporto in fase di nascita e dei primi mesi di vita (sicuramente utile, ma non risolutivo), quanto una diversa presenza e qualità dei servizi per le famiglie – scolastici, abitativi, di conciliazione, di sostegno alla formazione e all’impiego professionale – rispetto ai quali l’attenzione non è stata altrettanto ampia e mediatica.
Resta un tema: la popolazione italiana è, in maggioranza, composta da individui che vivono soli o in coppia senza figli e per queste persone si prevedono ancor minori interventi rispetto a quelli previsti per le famiglie con figli. I single in particolare, per troppo tempo considerati, da un punto di vista culturale e narrativo, come soggetti non centrali nell’economia del dibattito politico italiano, lavorano, contribuiscono al pagamento dei servizi della collettività, sostengono sviluppo e crescita come individui e meno di altri ricevono attenzione. L’urgenza del tema si sta mostrando in questo periodo di aumenti del costo della vita: affitti, bollette, spese di utenze sono spesso molto simili per le persone sole e per le famiglie perché, con estrema semplificazione, è evidente che il riscaldamento, così come un’utenza internet hanno lo stesso impatto economico sia che a utilizzarli sia una persona, sia che a utilizzarli siano più persone. Secondo uno studio di Coldiretti, realizzato sull’anno 2020 e rilanciato in questi giorni dal Corriere della Sera, i single hanno spese più alte per circa il 78%, di media, rispetto a una famiglia di tre persone. Quasi il 140% in più per l’abitazione, il 55% in più per il cibo.
Dati che riguardano i single per scelta, così come buona parte della popolazione anziana sola e dei single “di ritorno” (e qui occorrerebbe aprire una parentesi sull’impossibilità per molte persone di portare avanti scelte di vita legate a una separazione per meri motivi economici). Eppure, a fronte di un dato percentuale analogo in termini di rappresentatività della popolazione, l’importanza attribuita alla presa in carico dei problemi dei nuclei famigliari composti da coppie con figli rispetto a quelli dei nuclei di persone sole è, politicamente parlando, assolutamente impari. Questo avviene in modo trasversale, a prescindere dallo schieramento politico di riferimento. Si arriva quindi al paradosso per cui un single, pur contribuendo al pari di un individuo con figli – sia esso in una situazione di coppia o meno – al mantenimento dei servizi pubblici italiani, rischia di non veder in alcun modo rappresentate le sue istanze e i suoi bisogni in termini di sostegno al reddito, all’autonomia abitativa, alla conciliazione di tempi di lavoro e di vita (che si esplicitano in attività realizzabili anche al di fuori del contesto di cura). Al di fuori del sostegno alle situazioni di indigenza infatti, parametrate quasi esclusivamente in base all’isee, il single non è oggetto d’interesse politico, pur rappresentando una fetta sempre crescente di popolazione.
La domanda, certo provocatoria, che può sorgere a fronte di queste considerazioni, è: quali prospettive può darsi un paese che decide di non cercare risposte ai bisogni di un’ampia componente della sua popolazione e, parallelamente, continua a portare avanti un approccio privato e valoriale al sostegno alla natalità, invece di investire sui servizi? Investire sulla natalità non significa forse investire sull’occupazione femminile, sulla parità salariale (e sul salario minimo), sulla lotta all’evasione (per garantire maggior contribuzione e, quindi, maggior copertura finanziaria dei servizi), sulla scolarizzazione? E se queste sono attività che riguardano i cittadini come comunità, a prescindere dalla loro situazione familiare, non varrebbe la pena di ragionare in termini di investimento sulla qualità della vita e del lavoro, sul sostegno ai percorsi individuali di formazione, occupazione e tempo del “privato” dei cittadini intesi come tali e non esclusivamente per il compito/ruolo sociale svolto? La questione è già aperta nei fatti e pronta a generare cambiamenti sociali importanti: positivi o negativi dipenderà dalla cura che verrà posta nei processi di governo.