Relativismo culturale: comprendere le differenze senza giudicare
Il mondo contemporaneo, sempre più complesso e plurale, ci pone quotidianamente di fronte a novità che non comprendiamo immediatamente e che, talvolta, possono lasciarci interdetti. Le nuove tecnologie, la crescente interconnessione tra le persone, la migrazione globale e l’incontro con culture diverse ci spingono a confrontarci con modi di vivere, credenze e pratiche che spesso ci sembrano lontani o strani. In questa complessità, l’antropologia culturale ci suggerisce di adottare un atteggiamento “relativista”, ma cosa significa realmente?
Che cos’è il relativismo culturale in antropologia
Il relativismo culturale è un principio secondo cui le credenze e le pratiche di una società devono essere comprese nel contesto della loro cultura, senza applicare standard esterni. Questo concetto, che ha le sue radici nella disciplina antropologica e che è stato fortemente sostenuto da pensatori come Franz Boas e Claude Lévi-Strauss, ci invita a sospendere i nostri giudizi e a esplorare le logiche interne delle diverse culture. Esso rappresenta una sfida importante per il nostro modo di pensare, soprattutto quando ci troviamo di fronte a pratiche che sembrano confliggere con i nostri valori più profondi.
Oggi vorrei esplorare con voi come questo principio si sia sviluppato, le sue implicazioni nel contesto dell’etnologia moderna, e il ruolo che ha giocato nel contrastare l’etnocentrismo. Naturalmente, analizzerò anche i limiti e le critiche rivolte al relativismo culturale, in modo da comprendere meglio come esso possa aiutarci a vivere in una società sempre più aperta senza rinunciare alla nostra capacità di giudizio morale.
Un primo aspetto fondamentale da va chiarito subito riguarda le differenze tra il relativismo culturale in antropologia e il relativismo in filosofia e teologia. Nella filosofia, il relativismo è spesso inteso come una posizione secondo cui non esistono verità o valori assoluti, ma tutto è relativo al contesto individuale o culturale. In teologia, il relativismo è talvolta visto in maniera critica, poiché sembra negare l’esistenza di principi morali universali o divini. In questi ambiti, il relativismo è spesso percepito come una minaccia all’idea di verità oggettive e norme universali.
In antropologia, invece, il relativismo culturale assume un significato diverso: è innanzitutto una metodologia di ricerca. Si tratta di un principio operativo che invita l’antropologo a sospendere il giudizio su usanze, credenze e pratiche di una cultura diversa dalla propria, al fine di comprenderle nei loro contesti specifici. Questo non significa che l’antropologo debba approvare o giustificare ogni pratica, ma piuttosto che debba astenersi dal giudicare con i propri standard culturali e cercare di capire le logiche interne a quella società. Il relativismo in antropologia, quindi, non è una negazione dei valori universali, ma uno strumento che permette di analizzare le culture senza pregiudizi.
Il relativismo culturale, dunque, è uno dei pilastri dell’antropologia moderna, perché afferma che le credenze, i comportamenti e le pratiche di una società devono essere comprese e interpretate all’interno del contesto culturale specifico da cui emergono, senza applicare giudizi o standard esterni. Questa prospettiva si oppone all’etnocentrismo, cioè alla tendenza a giudicare le altre culture attraverso i parametri e i valori della propria.
Gli antropologi e il relativismo culturale
Nato in risposta all’etnocentrismo e all’evoluzionismo culturale del XIX secolo – che presumevano una scala gerarchica di sviluppo culturale, con le società occidentali considerate il punto più alto di tale scala –, il concetto di relativismo culturale può essere fatto risalire agli inizi del XX secolo con Franz Boas, uno dei pionieri dell’antropologia, che fu tra i primi a criticare questi preconcetti, sostenendo che tutte le culture dovessero essere studiate nel loro contesto storico e sociale. Secondo Boas, nessuna cultura può essere considerata superiore o inferiore in termini assoluti, poiché ogni società sviluppa le proprie norme e valori in risposta alle sfide specifiche che affronta.
Boas sottolineava come anche le emozioni e i giudizi morali siano prodotti della cultura in cui si vive, e dunque, se si vuole comprendere il comportamento umano, bisogna sospendere il proprio giudizio morale e cercare di immergersi nelle logiche della cultura osservata.
Successivamente, Claude Lévi-Strauss, uno dei più importanti esponenti dell’antropologia strutturalista, abbracciò e ampliò il concetto di relativismo culturale, dal momento che sostenne un relativismo metodologico, ovvero un principio che si basa sull’idea che nessuna cultura possa essere giudicata con criteri esterni, ma debba essere studiata e compresa dal suo interno. In altre parole, Lévi-Strauss affermava che non esiste alcun criterio assoluto che consenta di distinguere tra “produzioni nobili” e “produzioni basse” di una cultura, né tra le credenze o le istituzioni di una società rispetto a quelle di un’altra.
L’approccio di Lévi-Strauss è importante perché non si limita a una semplice tolleranza delle differenze culturali, ma riconosce la necessità di un cambiamento radicale nella prospettiva del ricercatore. L’etnologo deve, infatti, “cambiare il proprio sistema di riferimento” per riuscire a comprendere in modo oggettivo le culture studiate. Tuttavia, come egli stesso riconosce, questa non è un’impresa semplice: il rischio di cadere in una forma di sentimentalismo o di favoreggiamento eccessivo nei confronti delle culture studiate è sempre presente, ma Lévi-Strauss avverte che l’obiettivo non è né l’indifferenza morale né l’accettazione incondizionata.
Come ho già accennato, in antropologia il relativismo non significa mettere tutte le società sullo stesso piano, né affermare che tutte le pratiche culturali siano moralmente equivalenti. Ad esempio, il nazismo e la democrazia non possono essere considerati sistemi etici equivalenti, né una cultura che promuove la violenza o la discriminazione può essere equiparata a una che difende i diritti umani. La differenza fondamentale è che l’antropologia utilizza il relativismo come un metodo di ricerca, non come una filosofia morale. Il relativismo culturale è una forma di “sospensione del giudizio” che permette al ricercatore di immergersi in una cultura diversa senza pregiudizi, per comprendere il significato e la funzione delle pratiche nel loro contesto specifico.
Tuttavia, la sospensione del giudizio è temporanea. Molti antropologi ritengono che, una volta conclusa l’indagine, sia possibile — e in alcuni casi doveroso — esprimere un giudizio, specialmente in situazioni estreme come la violazione dei diritti umani, la violenza di genere o la persecuzione di minoranze. Il relativismo, quindi, non implica una neutralità etica assoluta, ma un approccio metodologico volto a garantire che i fenomeni culturali siano studiati nella loro complessità prima di essere giudicati. Questa distinzione è cruciale per evitare il rischio di confondere l’analisi scientifica con l’approvazione morale.
Secondo Lévi-Strauss, l’etnologo non deve necessariamente adottare una posizione di neutralità assoluta, ma piuttosto cercare di comprendere le ragioni profonde dietro le pratiche culturali che studia. Solo dopo aver fatto questo può permettersi di riflettere criticamente su tali pratiche, anche quando torna alla sua società di origine. Questo approccio evita il rischio di imporre standard morali esterni, ma allo stesso tempo consente una riflessione etica una volta che si è compreso il contesto.
In letteratura abbiamo numerosi esempi di grande importanza, come nei lavori di Ruth Benedict, soprattutto nel suo libro “Modelli di cultura” del 1934, in cui ha dimostrato come le diverse società abbiano modi distinti e validi di vivere, enfatizzando l’importanza di comprendere le culture secondo i loro termini, piuttosto che attraverso categorie universali. Melville J. Herskovits, nel suo libro “L’uomo e le sue opere” del 1948, ha difeso il relativismo come strumento per combattere l’etnocentrismo e promuovere il rispetto per la diversità culturale. Edward Sapir ha mostrato come i linguaggi influenzino il modo in cui le persone percepiscono la realtà, portando all’idea che ogni cultura interpreta il mondo in modo diverso a seconda del proprio linguaggio e della propria organizzazione simbolica. Margaret Mead, nelle sue monografie “L’adolescenza a Samoa” del 1928 e “Sesso e temperamento” del 1935, ha dimostrato come il genere e le relazioni sociali siano costruzioni culturali, variabili da una società all’altra, opponendosi così alla visione universale e rigida dei ruoli di genere. Infine, Clifford Geertz, in “Interpretazioni di culture” del 1973, ha sostenuto che le culture sono sistemi di significato che devono essere interpretati in base ai loro contesti interni (celeberrimo è il suo saggio del 1984 intitolato “Anti-Anti-Relativism”).
Anche in Italia abbiamo molti studiosi che hanno contribuito a sviluppare il tema del relativismo culturale, come ad esempio Ernesto de Martino e Amalia Signorelli. Com’è noto a molti, la ricerca di Ernesto de Martino si è concentrata sulle pratiche magico-religiose del Sud Italia, soprattutto nel contesto delle classi popolari. Sebbene non si sia occupato esplicitamente di relativismo culturale in termini teorici come Boas o Lévi-Strauss, la sua opera riflette una forte sensibilità verso la diversità culturale e la necessità di comprendere le pratiche religiose e culturali all’interno del loro specifico contesto storico. Ne è un celebre esempio il suo libro “La terra del rimorso” (1961), in cui analizza il fenomeno del tarantismo nel Mezzogiorno, studiandolo non con occhio etnocentrico o giudicante, ma cercando di comprendere il significato e il ruolo che aveva nella cultura locale. Questo approccio è affine al relativismo culturale, poiché de Martino propone di analizzare i rituali di guarigione e il misticismo senza imporre giudizi morali o categorie esterne. Al centro della sua riflessione c’è il concetto di “presenza”, legato alla capacità degli individui di far fronte alle crisi culturali e storiche. De Martino, tuttavia, mantenne sempre una prospettiva critica, distinguendosi dal relativismo radicale, evidenziando i limiti e le contraddizioni delle culture in esame, soprattutto quando erano sintomo di alienazione.
Dal canto suo, Amalia Signorelli, che di de Martino è stata allieva, si è concentrata sull’antropologia urbana, la globalizzazione e le trasformazioni sociali legate al cambiamento culturale. Anche lei non si è dedicata in modo esplicito al relativismo culturale come tema teorico, ma ha sottolineato come le culture siano in continua evoluzione e come le tensioni culturali emergano soprattutto nelle grandi città, dove convivono differenti gruppi sociali e culturali, e per cui emerge il bisogno di comprendere l’altro senza pregiudizi, ma con un approccio metodologico che si avvicina al relativismo culturale.
Il relativismo culturale come strumento di comprensione
Quest’ultimo esempio ci fa intuire che, in un mondo globalizzato e interconnesso, il relativismo culturale assume una dimensione ancora più complessa. Le interazioni tra culture diverse sono sempre più frequenti e i confini tra esse sono sempre meno definiti. In passato, Lévi-Strauss fece riferimento a questa situazione come un esempio di “civilizzazione mondiale”, dove le culture non sono isolate, ma costantemente in dialogo e in conflitto tra loro. Evidentemente, in questo contesto il relativismo culturale diventa uno strumento indispensabile per comprendere la molteplicità delle forme di vita umane.
È altrettanto chiaro che bisogna essere consci del pericolo di un relativismo senza limiti, che potrebbe portare alla distruzione delle culture stesse. Le culture devono essere protette dalla distruzione, non perché siano migliori di altre, ma perché rappresentano le diverse possibilità dell’esperienza umana. Dobbiamo porre attenzione alla necessità di preservare queste culture, pur continuando a riflettere criticamente sulle nostre pratiche sociali.
In conclusione, il relativismo culturale – secondo una prospettiva antropologica – ci invita a mettere in discussione le nostre certezze e ad abbracciare la diversità delle esperienze umane. Ci insegna che ogni cultura ha il proprio valore intrinseco, che non può essere misurato o giudicato attraverso standard esterni. Tuttavia, questo non significa rinunciare a ogni forma di giudizio morale, ma piuttosto sospenderlo temporaneamente per poter comprendere meglio l’altro.
Come sottolineato da Lévi-Strauss, il relativismo culturale non è un dogma da accettare, ma un problema da affrontare. Ci impone di riflettere continuamente sulle nostre posizioni, sia come studiosi che come esseri umani, e di riconoscere la complessità del mondo in cui viviamo. Solo attraverso un approccio rispettoso e riflessivo possiamo sperare di costruire un dialogo autentico tra le culture e di comprendere le molteplici dimensioni della condizione umana.
(Nella foto di copertina le due statue, tipiche dell’isola giapponese di Okinawa, raffigurano i Shīsā, cioè delle creature leonine con tratti canini. Vengono poste sui tetti o presso gli ingressi delle abitazioni per allontanare gli spiriti maligni. Solitamente sono accoppiati: il maschio, con la testa rivolta a destra, è rappresentato con la bocca chiusa in maniera che possa tenere lontano il male; la femmina, con la testa rivolta a sinistra, è invece rappresentata a bocca aperta, nell’atto di diffondere la bontà – Foto di Virginia D’Auria, ottobre 2024).