Archeologia in Penisola. Sorrento- La Base di Augusto con Claudia Cecamore

14 novembre 2024 | 12:12
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Archeologia in Penisola. Sorrento- La Base di Augusto con Claudia Cecamore

di lucio esposito

Nessuno di noi, cittadini sorrentini, ha mai pienamente realizzato l’importanza di un monumento come la Base di Augusto, una preziosa testimonianza che, sebbene frammentata e maltrattata dal tempo e dagli eventi storici, rappresenta uno dei tesori più significativi di Sorrento.

Cosi il Prof Mario Russo Ispettore Onorario della Soprintendenza Archeologica, aprì l’ultima conferenza dedicata alla Base di Augusto a Sorrento, tenutasi nel 2017, nell’ambito del ciclo organizzato da Felice Senatore a Piano di Sorrento.

La conferenza “Conversazioni d’arte al Correale“, in programma il 16 novembre 2024 alle ore 17:30 presso la Sala degli Specchi del Museo Correale di Sorrento, sarà un evento di grande interesse per gli appassionati di archeologia e per chi desidera approfondire la storia culturale di Sorrento. Si tratta del quarto appuntamento di un ciclo di incontri che esplorano le collezioni del museo e i loro collegamenti con la storia antica, ponendo questa volta al centro la Base di Augusto, una delle opere archeologiche più significative del Museo Correale.

La Base di Augusto, attualmente esposta nella nuova sezione archeologica del Museo Correale e una copia al muceo della Civiltà Romana, è una testimonianza unica della romanità che si è sviluppata in Campania, ma è anche un’opera che intreccia miti e storia, offrendo uno spaccato dei culti e delle pratiche religiose che circondavano la figura dell’imperatore Augusto. L’evento sarà arricchito dall’intervento della Prof.ssa Claudia Cecamore, curatore archeologo della Sovrintendenza Capitolina e responsabile del Museo della Civiltà Romana, che condurrà una riflessione approfondita sulla base. Contribuiranno alla discussione Gaetano Mauro, presidente del Museo Correale, e Giuliana Pegge, presidente di una delle principali istituzioni culturali locali.

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L’opera sarà analizzata sotto molteplici aspetti, considerandone il significato storico e le influenze culturali che riflettono l’importanza della figura augustea nel contesto del territorio sorrentino e nel più ampio impero romano. La base stessa, che ha già suscitato l’interesse di studiosi e cittadini in precedenti conferenze, come quella tenuta nel 2014 dal Prof. Mario Russo, evidenzia una visione quasi simbolica di Sorrento come punto di collegamento tra cultura locale e imperiale. Il Prof. Russo, durante quell’incontro, aveva sottolineato come la base rappresentasse per i sorrentini un patrimonio inestimabile, un “tesoro” che, nonostante i segni del tempo, racconta di una Sorrento che fu partecipe della grandezza dell’Impero Romano.

L’appuntamento di sabato offrirà quindi una rara opportunità di vedere questo importante reperto attraverso le lenti di nuove interpretazioni e ricerche. La Prof.ssa Cecamore illustrerà i dettagli iconografici e architettonici della base, mettendo in luce come quest’opera si inserisca nella tradizione dei monumenti celebrativi e religiosi dedicati alla figura di Augusto, padre e protettore dell’Impero. Inoltre, si prevede una riflessione sul ruolo delle divinità raffigurate sulla base — Vesta, la Magna Mater, Apollo, Diana e Latona — che proteggono simbolicamente l’autorità imperiale e rappresentano un legame con il culto romano presente sul Palatino.

L’iniziativa rappresenta una significativa occasione per i cittadini di Sorrento e per i visitatori di connettersi con la storia antica della città e riflettere su come la memoria storica sia conservata e tramandata. Questa conferenza non è solo un momento di valorizzazione del patrimonio storico di Sorrento, ma un ponte culturale che unisce passato e presente, dimostrando come anche un singolo reperto possa raccontare storie che attraversano i millenni.

In un’epoca in cui il patrimonio culturale e la conservazione storica sono sempre più al centro del dibattito pubblico, eventi come questo evidenziano l’importanza della tutela e della promozione dei beni storici locali. La serie di “Conversazioni d’arte al Correale” si configura così come un contributo significativo per il panorama culturale della Penisola Sorrentina e per il più ampio patrimonio culturale italiano.

 La Base di Augusto

Tra i primi a parlare di questo reperto fu  Christian  Hulsen nel 1894 in  Zur Sorrentiner Basis ove si legge :

Dalle comunicazioni dell’Istituto Archeologico Reale Tedesco di Roma, 1804, volume IX.

Per chiarire la base sorrentina pubblicata più recentemente da Heydemann in queste comunicazioni del 1889, tavola X, Samter (sopra p. 125 e seguenti) ha compiuto un passo significativo, interpretando la rappresentazione del lato lungo destro come riferita a Vesta, inserendo così il monumento nel contesto appropriato, quello romano. È probabile che esso sia una riproduzione di un importante monumento pubblico della capitale, come suggerito dalla dimostrazione di Samter riguardante due ripetizioni del sacrificio a Vesta.

La base acquista un interesse particolare grazie alla comprensione del legame che unisce le divinità rappresentate: Vesta, la Magna Mater, Apollo con Diana e Latona. Questo legame comune è di natura locale: tutte queste divinità possiedono santuari molto venerati sulla sommità o sui pendii del colle Palatino; sotto la loro protezione si trova la casa imperiale, in particolare quella di Augusto. Anche la rappresentazione delle quattro divinità si riferisce al Palatino.

(1) A. Man ha gentilmente provveduto a una nuova e accurata revisione dell’originale nel museo di Sorrento, grazie alla quale devo anche le fotografie del retro e del lato lungo destro; le altre due facce, nella posizione attuale, non sono fotografabili.

(2) Concordo con Samter nel ritenere che il rilievo non rappresenti la piccola aedicula di Vesta nella domus Augustana, ma il celebre antico tempio sulla Via Sacra. La forma rotonda del tempio è suggerita nel rilievo sorrentino, come sottolinea Man, dalla convergenza delle nervature del tetto; nel rilievo palermitano, la differente altezza dei capitelli delle colonne sembra avere lo stesso scopo. È notevole che anche negli altri rilievi, interpretati con maggior o minor probabilità come riferiti al tempio circolare di Vesta (il rilievo nel Museo Lateranense presso S. Giovanni in Laterano, e in parte a Firenze: Röm. Mitteilungen 1892 p. 285, 1803.

Successivamente Giulio Emanuele Rizzo pubblica nel 1932 nel  BULLETTINO DELLA COMMISSIONE ARCHEOLOGICA COMUNALE DI ROMA  un saggio sulla Base di Augusto di Sorrento.

 La Base di Augusto

Giulio Emanuele Rizzo ha cercato in alcuni suoi scritti di individuare e di circoscrivere gli elementi di pretta grecità, pur con concezioni spesso romane, sia nella pittura che nel rilievo. Sono da addurre tra i suoi ; La base di Augusto (in Bullettino della Commissione Archeologica Comunale, Roma, LX, 1932, pp. 7-109, tav. 4 ill. 21).

Questa pubblicazione porterà a conoscenza degli archeologi e studiosi della capitale la importanza della base di Sorrento tale e tanto che quando Giulio Quirino Giglioli organizzò la Mostra Augustea della Romanità nel 1933, per volere di Mussolini, volle fortemente  la base nell’esposizione.

Uno scambio di missive tra Giglioli e Amedeo Maiuri per eseguirne la copia, nasconde la volontà di non portare la base a Roma ma di eseguirne una copia qui a Sorrento. Maiuri aveva intuito la grande importanza del reperto e il rischio che non tornasse più a Sorrento, e nelle missive si affrettava riferire che anche qui a Pompei avevamo dei buoni copisti. Il museo della Civiltà Romana nasce proprio su una serie di reperti provenienti da ogni dove a supporto della ideologia.

-Guarducci  nel 1964 e poi nel 1971

-La dimora di Augusto sul Palatino e la base di Sorrento. di Degrassi, N.

Pubblicato in Atti della Pontificia accademia romana di archeologia. Rendiconti, 39.1966-67

La Base di Sorrento: Un Tesoro Archeologico che Racconta la Grandezza di Augusto

Esposta nel Museo Correale di Terranova a Sorrento, la Base di Sorrento è uno dei reperti archeologici più significativi dell’epoca tardo-augustea. Probabilmente destinata a costituire il basamento di una statua di Augusto, la base è comunemente conosciuta anche come “base di Augusto”, una denominazione che sottolinea il legame con l’imperatore romano.

Quattro lati della base erano decorati con rilievi che raffigurano eventi legati all’inaugurazione del tempio di Vesta, eretto da Augusto sul Palatino, nel cuore della sua residenza. Il tempio di Vesta, infatti, rappresentava uno dei punti focali del culto pubblico romano e, in particolare, era situato nella zona residenziale di Augusto, un elemento che univa il carattere sacro e politico della sua figura. I rilievi sulla base celebrano non solo la dedicazione del tempio, ma anche l’importanza simbolica del legame tra l’imperatore e le divinità, con scene che mettono in risalto la sua figura come Pontefice Massimo.

Il destino della Base di Sorrento è stato curioso. Per lungo tempo, il monumento è rimasto murato su una delle pareti dell’episcopio di Sorrento, fino a quando, nel 1864, fu distaccata e successivamente inserita nella raccolta municipale nel 1867. La base è giunta ai giorni nostri in condizioni frammentarie. Dei tre blocchi originari che probabilmente costituivano il monumento, sono sopravvissuti solo due laterali, di cui uno parzialmente danneggiato. Nonostante le sue dimensioni ridotte, il reperto continua a essere un importante punto di riferimento per gli studiosi della Roma imperiale e per coloro che vogliono comprendere la relazione tra l’architettura, la scultura e la propaganda politica di Augusto.

La Base di Sorrento, dunque, non è solo un’opera d’arte antica, ma un messaggio duraturo sulla grandezza di Augusto, sulla sua visione politica e religiosa, e sulla sua capacità di legare insieme la sua figura con quella delle divinità protettrici di Roma. Oggi, il reperto custodito nel Museo Correale di Sorrento continua ad affascinare i visitatori, offrendo uno spunto di riflessione sulla maestria artistica e sulla potenza simbolica dell’arte imperiale romana.

La nuova sistemazione della Collezione archeologica del museo Correale , vede la base di Augusto posta al centro della antica cisterna romana, con un effetto molto suggestivo, con la rimozione delle integrazioni in gesso volute dai curatori della Soprintendenza, che forse lasciano qualche perplessità, soprattutto quando a visitare sono i ragazzi delle scuole medie ed elementari.

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https://www.academia.edu/30445012/Augusto_Sorrento_e_la_mantica_sibyllina

  1. Anche sulla base di questa ipotesi, ovvero di una Sorrento volta al recupero delle sue tradizioni greche mentre si allinea alle altre città sue vicine per il culto imperiale, possiamo passare all’esame del più importante documento che ci sia rimasto della Sorrento augusteo-tiberiana. Mi riferisco a quella che è stata per molto tempo chiamata «base di Augusto a Sorrento» e ora, con più prudenza, è detta semplicemente «base di Sorrento», che il Russo, cui devo molte delle mie informazioni sull’archeologia sorrentina, colloca nel foro presso il tempio di Roma e Tiberio50. Recentemente la “base” è stata riesaminata e indagata con molta acribia da Claudia Cecamore51, che ha messo in rilievo e cercato di risolvere il problema della identificazione degli originali che sulla base sarebbero rappresentati, onde poi arrivare a una migliore comprensione di essa. La base, com’è noto, è stata ricomposta.

grazie al ritrovamento di due blocchi murati nel campanile del duomo di Sorrento; essa pertanto è molto mutila e soprattutto è difficile stabilire cosa supportasse. Il fatto che i lati brevi, a paragone di quelli lunghi, non siano molto larghi rende difficile immaginare che reggesse una statua equestre, anche se questa è una delle ipotesi del Russo che, in base a un avvallamento sulla superficie superiore, pensa che vi potesse essere un personaggio a cavallo, forse Augusto52 (e questa ipotesi porterebbe a una lettura delle raffigurazioni a partire da uno dei lati corti, il che pure farebbe delle difficoltà). Altri ha immaginato che vi fossero invece tre statue, Augusto, Tiberio e G. Cesare53, ma chi invece data l’opera in età tiberiana, lascia la questione aperta54. Se ci atteniamo alle interpretazioni più accettate, il lato principale sembra fosse il lato lungo dove sono rappresentate cinque figure femminili che avanzano verso destra e, dopo una lacuna, un’altra figura femminile, la dea seduta, e un’ulteriore figura; la scena si svolge nella parte sinistra sotto un porticato, indicato da colonne ioniche e, dopo la lacuna, davanti a un tempio identificato da colonne, in cima alle quali, ai due estremi, compaiono un toro e un ariete, all’interno del quale si vede un palladio: si tratta quindi di Vesta, nel cui tempio a Roma era appunto conservato il famoso pignus55 che doveva garantire il futuro di Roma. La faccia breve a sinistra è a questa prima strettamente legata, poiché il portico del lato precedente continua qui e la corona civica sulla porta indica la casa di Augusto; vi compare una figura in piedi, Marte Ultore, e un piccolo Erote. La figura mancante si suppone da parte di tutti essere Venere; la figura seduta, che si intravede con la grande cornucopia in mano e di cui rimane solo una piccola parte, va interpretata, secondo la Cecamore56, non come il Genius Augusti, a cui pensava Giulio Emanuele Rizzo, ma come il Genius Loci e quindi la personificazione del Palatino stesso. Sulla faccia lunga, alle spalle del rilievo con Vesta, rimangono visibili tre figure: una divinità, identificabile con la Magna Mater, seduta in trono tra due leoni; un coribante e una figura femminile, per la quale la Cecamore ha avanzato l’affascinante ipotesi che si possa trattare di Livia. Sull’altro lato breve, infine, che è quello che più ci interessa, si individua la triade delia, Diana, Apollo e Latona, ai cui piedi c’è una Sibilla, molto rovinata, la cui testa è ora completamente cancellata, che sembra stringere un contenitore, forse un vaso, su cui ritorneremo.  Si devono alla Cecamore due importanti osservazioni: la prima delle quali è relativa alla differenza di scala, nelle dimensioni delle figure, tra i vari personaggi, differenza che obbliga a distinguere tra figure umane e divine; la seconda è che sfondi architettonici sono presenti solo nel lato lungo frontale e nel lato breve a esso strettamente congiunto e questi vengono così a formare una unica scena (questo era stato già notato), mentre sulle altre due facce non c’è nessuno sfondo, ma la sola raffigurazione delle divinità e degli altri personaggi a loro legati (cosa che si doveva verificare solamente sul lato dove era Cibele). Queste osservazioni hanno permesso di identificare nella scena frontale principale cinque vestali e dopo la lacuna non le divinità cui pensavano il Rizzo o Margherita Guarducci57, ma la Vestalis Maxima; e nell’altra figura, alla fine della scena, probabilmente Livia, la cui raffigurazione sarebbe simile a quella che vediamo nella scena con Cibele. Peraltro la Cecamore pensa che quelle raffigurate non siano scene che si svolgono tutte sul Palatino o che indichino momenti precisi della politica religiosa augustea, come fino a poco tempo fa si era pensato. Negli studi precedenti, infatti, quasi tutti gli studiosi avevano visto: una rappresentazione della consacrazione di un signum e di un’ ara nel 12 a.C., momento in cui Augusto rivestì il pontificato massimo alla morte di Lepido; il ricordo della costruzione del tempio nel 2 a.C., nella scena dove compare Marte Ultore; la ricostruzione avvenuta nel 3 d.C., nella scena di Cibele; nel rilievo con la triade, infine, la deposizione nel tempio dei libri Sibyllini, avvenuta nel 12, una data comunque discussa. Quanto al tempio (probabilmente di Vesta) raffigurato nel lato principale e al suo rapporto con la casa di Augusto sul Palatino, è sorta una aspra discussione che, dopo gli interventi di Augusto Fraschetti58 e della Cecamore, i quali riprendono e ampliano le motivazioni addotte da Nevio Degrassi59, potrebbe dirsi ora conclusa. Il problema è stato risolto così: nel 12 Augusto eletto pontefice massimo, «non prese una qualche casa pubblica, ma rese pubblica una parte della propria, perché era assolutamente necessario che il pontefice massimo abitasse in un luogo pubblico»60. A tale soluzione allude anche Ovidio, in fast. iv 949-956, in occasione del 28 aprile, introducendo il ricordo della nuova ricorrenza: «Vesta è accolta negli spazi (in limine) del suo parente: così hanno stabilito i giusti patres. Febo ne ha una parte, un’ altra parte è stata ceduta a Vesta; egli stesso ha quel che rimane»; e continua: State Palatinae laurus, praetextataque quercu, / stet domus! Aeternos tres habet una deos61. Quindi il Palatino, una cui parte era stata già ceduta da Augusto per la costruzione del tempio di Apollo, votato nel 36 dopo Nauloco62 e completato e dedicato nel 28, era nel 12 diviso fra tre divinità, Apollo, appunto, Vesta, parente di Augusto, e lo stesso Augusto.  A questa parentela tra Augusto e Vesta accenna ancora Ovidio che, in occasione del 6 marzo, dice: «Qui, chiunque tu sia, che veneri i Penetrali della casta Vesta, ringrazia e poni incenso sui fuochi di Ilio. Agli innumerevoli titoli di Cesare, che egli preferì meritare, si è aggiunto l’onore del pontificato. I numi dell’eterno Cesare vegliano sui fuochi eterni: le garanzie dell’impero tu vedi congiunte. Le divinità dell’antica Troia, preda degnissima per chi le portava, carico della quale Enea fu sicuro dai nemici, un sacerdote disceso da Enea tocca numi che gli sono parenti: tu, o Vesta, proteggi il capo che ti è parente»63. La “parentela” di Vesta con Augusto va spiegata, sempre seguendo il Fraschetti64, con il fatto che tra i Penates portati da Enea doveva esserci Vesta, sicché i fuochi di Vesta potevano anche essere considerati Iliaci foci; si potrebbe inoltre ricordare che nell’Eneide (iii 147) a Creta in sogno appaiono a Enea le effigies sacrae divum Phrygiique Penates, che gli dicono di averlo seguito sempre e gli promettono venturos tollemus in astra nepotes / imperiumque urbi dabimus. Vesta quindi è parente di Augusto e ne condivide la casa e Augusto come pontefice massimo viene a essere rappresentato come sacerdote di Vesta. Questa connessione con Vesta, come spiega sempre il Fraschetti, permette di capire meglio anche quella con Marte e con Romolo, figlio di Marte e di Rea Silvia, divinità che Ovidio ancora una volta considera iliaca65. Queste osservazioni confermano l’unitarietà delle scene raffigurate sulla base, ma nel loro essere in gran parte quel che direi “allusive”, confermano l’ipotesi del Fraschetti che il tempio-rotonda non sia un “reale” tempio di Vesta fatto costruire eventualmente da Augusto, cosa che non risulta dalle fonti citate né dalle altre immagini66 portate a confronto e contraddette dai dati epigrafici, seppur frammentari, e dallo stesso silenzio di Augusto. Del resto, un elemento indicativo, nel senso di una “allusività” della scena, sembra sul rilievo la presenza del Palladio, pignus di Roma che mai, se non con Elagabalo67, fu spostato dal tempio di Vesta nel Foro: se esso è stato lì raffigurato, lo è stato per completare e rendere più forte il significato di Vesta, depositaria di uno di quei “talismani” che garantivano l’impero e la sua durata. Se la scena di Vesta, della casa di Augusto e anche di Marte, raffigurato sul colle, accanto a Venere, madre di Enea e al Genius del Palatino stesso fanno quindi un tutt’uno, credo che la scena nel suo complesso, pur senza voler indicare o richiamare precisi momenti dell’attività cultuale di Augusto, voglia comunque celebrare il principe, la sua casa sacra come dedicata a Vesta (e indirettamente anche ad Apollo raffigurato sulla faccia breve a destra), una casa in cui anche Marte interviene in quanto parente e proprio su quel colle che ha visto la più antica fondazione della città. Il colle è non solo il simbolo dell’antica città, ma in qualche modo di Roma stessa: abbiamo visto che Ovidio conia il termi ne Palatia per indicare il luogo dove gli dèi si radunano; non sarà quindi un caso se le divinità “parenti” si ritrovino qui tutte insieme. Se questo è il significato unitario da dare a queste due raffigurazioni, e troviamo qui le divinità fondanti e uno dei pignora dell’impero, forse si potrà sottolineare come la presenza di Cibele con il suo corteo sulla faccia opposta rimandi a un altro pignus: il betilo di Pessinunte, donde era venuta la Magna Mater, secondo il racconto di Livio68, altro talismano destinato a garantire la continuità dell’impero. E in questo senso acquista importanza che proprio Livia, avvicinata a volte a Pudicizia e i cui collegamenti con la Magna Mater sono noti69, compaia sia in questo rilievo che in quello dove è Vesta: la moglie dell’imperatore ha anche lei, partecipe della casa del princeps, un ruolo di garante o di “aiuto-garante” delle divinità cui viene avvicinata70. Opposta alla faccia con Marte è la triade delia: della sua identificazione con quella presente sul Palatino siamo sicuri, grazie alla descrizione che ne fa Properzio71: ancora quindi un accenno a un “tempio palatino”, a uno dei più importanti, votato come si è detto nel 36, dedicato nel 28, ricordato già da Virgilio all’inizio del famoso vi libro dell’Eneide, lì dove Enea promette di innalzarlo e di ricordare anche la Sibilla, i cui carmi depositerà lì. Prima di soffermarci sul problema della raffigurazione della Sibilla, presente sul bassorilievo, ma probabilmente non nel santuario palatino, dato che Properzio non la ricorda (ma questo potrebbe essere un argumentum ex silentio), mi pare che queste altre raffigurazioni completino quanto già si intravedeva come messaggio ideologico dalle prime due facce: si tratta sia per Cibele che per la triade apollinea di figure presenti nei templi del Palatino, anche se le immagini non indicano strutture architettoniche, ma sembrano voler rimandare attraverso di esse ancora una volta al futuro di Roma e, con la triade apollinea e la Sibilla, alle più autorevoli profezie sulla grandezza di Roma e sulla sua durata nel tempo ovvero i temi celebrati dalla poesia augustea, e anche in tante cerimonie – ricordo in particolare la celebrazione dei ludi saeculares nel 17, ordinati appunto da un oracolo sibillino72. Insomma, sembra che, per i Sorrentini, la base riassumesse i valori cultuali e anche privati dello spazio del Palatino, uno spazio che nel 3 d.C. Augusto aveva reso completamente pubblico e che così alludeva a tutti i discendenti di Enea e all’origine dell’impero voluto dagli dèi. La base era come un Palatino nella stessa Sorrento, l’immagine del princeps, di Roma (abbiamo visto che per Ovidio vedere il Palatino era come vedere Roma), del suo passato e del suo futuro. In questa prospettiva erano utilizzate come modelli, così come gli studi dei colleghi  archeologi hanno dimostrato, immagini già esistenti a Roma stessa e che si possono identificare su altri monumenti. La Sibilla però non doveva essere, come si è detto, una figura preminente nel tempio augusteo del Palatino: piuttosto Augusto aveva collocato, come ora si pensa, in qualche aula degli ambienti di sostruzione della terrazza del santuario i rotoli oracolari, come racconta Svetonio (Aug. 31, 1), quale che sia l’anno in cui ciò avvenne, forse anteriore al 12 indicato dal biografo73. La triade apollinea era stata inoltre raffigurata secondo uno schema diverso, con Apollo davanti seguito dalle altre due divinità mentre avanzava verso una altra figura che, presente sulle lastre campane, Maria J. Strazzulla ha identificato come “Vittoria”74: è interessante ricordare che una simile raffigurazione si ritrova, secondo quanto visto da Stefania Adamo Muscettola, a Capri, nella villa del Castiglione, e una simile doveva essere a Pietrelcina, in un praedium di Vedio Pollione, ricordi in questo caso della battaglia di Azio75. La scelta quindi del tempio Palatino come modello è importante, ma più interessante ancora è che a Sorrento l’immagine sia completata, per così dire, dalla Sibilla. Come aveva già visto Jean Gagé76, la «sibillistica» dell’età augustea tende a perdere il suo carattere di remedia, per avvicinarsi di più alla sibillistica profetica. E credo che la Sibilla, posta ai piedi di Apollo in questa raffigurazione, implichi un’esegesi diversa da quella avanzata dal Rizzo e seguita in genere dai commentatori successivi, ma non dalla Cecamore, che giustamente pensa a un intervento dotto o a un’aggiunta rispetto al gruppo palatino. Come si è detto, gli studiosi hanno ritenuto che la scena alludesse al trasferimento dei libri, dopo una nuova revisione, dal tempio di Giove, dove erano stati dal 76 a.C., dopo l’incendio che li aveva distrutti e la ricostituzione della raccolta grazie a ricerche in vari santuari, in particolare a Erythrae, proprio ai piedi del tempio di Apollo. Svetonio (Aug. 31, 1) parla di foruli e questi furono identificati nel 1947 da Herbert A. Cahn77 sulle monete di C. Antistius Vetus del 16 a.C. Queste monete riportano, al di sotto della statua di Apollo, tre piccolissime figure che sembrano “bottiglie con un tappo” e che erano state identificate fino ad allora con dei rostri, mentre altre due piccole figure a sinistra e a destra di queste, identificate fino ad allora con ancore, erano interpretate dal Cahn con rami di albero. In queste tre “bottiglie” il Cahn aveva identificato i foruli contenenti i libri sibillini di cui parla Svetonio, destreggiandosi per spiegare come mai questi ultimi, da due che sono nel passo dello storico, fossero diventati tre. Nel 1982 lo Jucker, anche sulla base di un attento esame del significato di foruli, concluse che le tre “bottiglie” non potevano che essere rostri, che si doveva tornare alla vecchia interpretazione delle monete e che, con il termine foruli, bisognava intendere appunto, come ora si fa, degli scaffali78.  Se partiamo da questo e torniamo alla Sibilla della base, ci possiamo servire di un disegno dell’Ottocento di un famoso disegnatore francese, il Turpin, conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli79. Qui la Sibilla, con lunghi capelli, si appoggia o stringe un contenitore (Figura 2): come nel caso delle monete, questo contenitore non può alludere al contenitore dei rotoli. Potrebbe invece alludere a quella tradizione cumana risalente allo storico locale Iperoco80, fatta propria da Pausania81, secondo cui i Cumani non avevano più una Sibilla viva, ma ne mostravano la hydria che ne conteneva le ceneri. La tradizione è ben nota a Petronio, che parla di una ampolla82, ma anche allo pseudo-Giustino della Cohortatio ad gentiles, che parla di phakos, termine che indica una bottiglia piatta83. L’autore o gli autori (probabilmente maestranze locali) della base, i quali si rivolgevano a un pubblico sorrentino, avranno voluto riprendere così la tradizione cumana e raffigurare tanto la Sibilla viva, come la raffigura Virgilio, che immaginava una Cuma già fondata ed esistente all’arrivo di Enea, quanto le sue ceneri racchiuse in una urna/hydria, come i Cumani contemporanei sapevano. La Sibilla (forse la Marpessia troiana), venuta comunque a Roma da Cuma, ai tempi di Tarquinio, a cui offriva i suoi libri in vendita, era allora ancora viva, ma già morta appunto ai tempi di Iperoco. Contemporanea di Troia era infatti stata destinata a vivere mille o novecentonovanta anni (secondo i computi di Flegonte di Tralles84, che trasmette appunto l’oracolo dei ludi saeculares e accenna ai computi augustei del saeculum di 110 anni). Ai tempi di Iperoco, perciò, certamente non poteva più profetare, neanche i testi delle sue profezie a Cuma restavano, ma solo le sue ceneri e l’hydria ne conservavano il ricordo. La hydria, o il vaso molto mutilo che mal si vede oggi, potrebbe quindi esprimere un voluto ricollegamento a tradizioni cumane. A questa ipotesi mi hanno spinto i risultati degli scavi portati avanti da Carlo Rescigno sull’acropoli di Cuma e nell’area circostante85. Essi hanno permesso di confermare che il tempio più alto sulla se  condo la testimonianza di Virgilio e di Servio, e soprattutto hanno portato alla luce resti di una struttura che potrebbero appartenere al rifacimento del tempio, sembra in età tiberiana, come si evince da una importantissima iscrizione rinvenuta come copertura di una tomba. Le strutture sembrano indicare una cella con tre nicchie destinate a ospitare una triade, appunto Latona, Apollo e Artemide. L’iscrizione parla di un Cupiennio, appartenente a una famiglia ben nota, già legata alla casa di Augusto, che in età tiberiana si rende benemerita per lavori al tempio e giochi86. Una statua di Sibilla non è stata ancora rinvenuta, ma non ci sarebbe da meravigliarsi se un giorno la si ritrovasse. Gli autori della base potrebbero essere stati a conoscenza di questi lavori ed essersi ispirati anche a Cuma per la loro immagine di Sibilla: era, oltre tutto, una valorizzazione di un poeta come Virgilio ben noto e di cui un falsario, come si è visto, poteva dire che aveva frequentato Sorrento e aver promesso lì un sacrificio alla progenitrice di Enea e, quindi, di Augusto, Afrodite. In questo modo la classe dirigente sorrentina, di età augustea o forse più probabilmente tiberiana (di Tiberio sappiamo che si era dato da fare per promuovere monumenti che ricordassero Augusto al di fuori di Roma87) si allineava alle altre città campane nella celebrazione del princeps, ma lo faceva sottolineando le tradizioni di Cuma, l’altra punta del Golfo, ed esaltando quelle tradizioni greche che Augusto aveva tanto apprezzato a Neapolis e a Capri88. Svetonio, per parte sua, racconta che Augusto a Puteoli, al momento di salpare per Capri, rallegratosi per le manifestazioni di lode dei passeggeri di una nave alessandrina appena sbarcati, fece dono ai suoi compagni di toghe e mantelli greci «a condizione che i Romani adottassero il costume e la lingua dei Greci e questi facessero il contrario»89; è lo stesso Augusto che a Neapolis, la città in cui i Romani vivevano, come ricorda Strabone, alla greca, aveva negato il ritorno totale alla tradizione greca rappresentato da Parthenope e aveva voluto si conservasse il nome di Neapolis, la città che, come ricordava Livio90, aveva voluto il foedus con Roma.

La base di Sorrento: le figure e lo spazio fra mito e storia, in Mitteilungen des Deutsches Archaeologischen Institut. Roemische Abteilung ,111, 2004, pp.105-141  claudia cecamore

https://www.academia.edu/2417784/La_base_di_Sorrento_le_figure_e_lo_spazio_fra_mito_e_storia_in_Mitteilungen_des_Deutsches_Archaeologischen_Institut_Roemische_Abteilung_111_2004_pp_105_141

La base di Augusto di Sorrento, oggi custodita nel Museo Correale, è una scultura antica scoperta e descritta per la prima volta nel Settecento. Originariamente murata in una strada di Sorrento, fu rimossa nel 1843, portando alla luce un rilievo aggiuntivo. La base è composta da tre blocchi di cui solo due sono giunti a noi, in parte danneggiati.

I rilievi sui lati della base raffigurano scene religiose e mitologiche, con figure come le Vestali, Vesta, e divinità come Diana, Apollo, Latona e la Magna Mater, rappresentate davanti a elementi architettonici. Studi successivi di vari esperti, tra cui Giulio Emanuele Rizzo e Christian Hülsen, hanno interpretato queste figure come riferimenti ai templi e ai riti augustei sul Palatino a Roma.

Rizzo, nel suo studio del 1926, sostenne che il lato principale della base, raffigurante il culto di Vesta, commemorasse la dedica del tempio di Vesta da parte di Augusto. Tuttavia, un’analisi successiva di Attilio Degrassi mise in dubbio questa interpretazione, modificando la lettura di alcune iscrizioni antiche. Sandro Stucchi propose un’interpretazione alternativa, collocando le scene presso il tempio di Divo Giulio e considerando la base un simbolo della divinizzazione di Giulio Cesare.

Nonostante le differenti ipotesi, la base è considerata una testimonianza importante della diffusione del culto imperiale romano nella regione campana e riflette l’influenza della figura di Augusto anche in luoghi lontani da Roma.

Il dibattito sulla base di Sorrento riguarda le raffigurazioni presenti sui quattro lati e la loro interpretazione storico-religiosa. Particolarmente controverso è il lato A, in cui appaiono figure femminili accanto alla dea Vesta. Vari studiosi hanno proposto differenti identificazioni per queste figure e il contesto religioso rappresentato. Rizzo interpretò le due figure come divinità associate a Vesta, forse Cerere e Libera, basandosi su legami cultuali e iconografici. Questa ipotesi è stata sostenuta da alcuni, ma altri hanno avanzato letture diverse: Stucchi, ad esempio, ha proposto che rappresentino divinità locali come Giuturna e Iuno Iuga.

La studiosa Guarducci ha suggerito che una delle figure sia Flora, reinterpretando ulteriormente l’iconografia. Tuttavia, ogni ipotesi modifica il contesto storico e simbolico del rilievo, spostando il significato del monumento tra il Palatino e altre aree sacre di Roma.

Il monumento mostra anche una differenziazione nella dimensione delle figure, che distingue tra divinità e mortali, ma in modo anomalo rispetto ai rilievi votivi romani classici. Inoltre, solo i lati A e C presentano uno sfondo architettonico dettagliato, mentre gli altri lati sono privi di riferimenti spaziali. Questa disomogeneità suggerisce la necessità di un’analisi iconografica e spaziale più approfondita, svincolata dalle interpretazioni tradizionali.

L’identiicazione con la sesta vestale sembra fuori di dubbio. La posizione distaccata ed af-

frontata rispetto al resto del gruppo risulta un unicum nell’iconograia delle vestali ed ha cer-

tamente fuorviato gli studiosi che si sono occupati del monumento; d’altra parte proprio la po-

sizione isolata a destra di Vesta qualiica la igura come Vestalis Maxima.

L’inconsueta disposizione del gruppo delle sacerdotesse deve dipendere dalla natura del-

la scena centrale, purtroppo irrimediabilmente perduta. La ricostruzione della parte mancan-

te proposta dal Rizzo, con la sesta vestale davanti alle altre cinque ed Augusto in atto di sacri-

icare al centro del rilievo, rivolto verso la dea, sembra infatti deinitivamente smentita. Non

solo come abbiamo visto la vestale mancante si trova accanto a Vesta, ma l’autopsia del pezzo

ha mostrato i frustuli di un altro elemento: sulla frattura di A , in corrispondenza della gamba

della vestale sono chiaramente visibili alcuni tratti con andamento più o meno radiale. La su-

pericie del rilievo in questo punto, sebbene molto consunta, non arretra rispetto al panneggio

della vestale, come ci si aspetterebbe se in questo punto fossimo in corrispondenza del fondo

– come presupposto nella ricostruzione proposta dal Rizzo –, bensì resta sullo stesso piano, il

che implica che in origine doveva addirittura aggettare (ig. ). Non abbiamo nessun altro ele-

mento per tentare di ricostruire cosa fosse raigurato in questo punto. I tratti individuati non

sembrano corrispondere alla parete di un altare, neanche se addobbato da ghirlande. L’inter-

pretazione più probabile, per quanto largamente ipotetica, è che i tratti visibili sulla supericie

del marmo appartengano ad un panneggio e attestino la presenza di un personaggio immedia-

tamente di fronte alla dea; il loro andamento tuttavia non sembra poter coincidere con il pan-

neggio di un togato, quale ci aspetteremmo nel caso fosse qui raigurato Augusto. Il princeps

vi doveva naturalmente essere raigurato, ma non abbiamo suicienti elementi per elaborare

ipotesi credibili sulla posizione e sullo schema adottati. Altro non possiamo dire se non che la

scena centrale, che è certamente la chiave per l’interpretazione dell’intero lato A, doveva esse-

re più complicata di quanto non si sia sempre pensato.

La igura di destra è una peplophoros stante sulla gamba destra, con la sinistra leggermen-

te arretrata e lessa. L’himation è sollevato a coprire la testa e sembra coprire la spalla sinistra,

per restare poi trattenuto dal braccio piegato, da cui scende in una serie di pieghe ino al gi-

nocchio. Il braccio destro, piegato nel gesto di allontanare l’himation, è coperto ino all’avam-

braccio dal panneggio: potrebbe trattarsi dell’himation, ma sembra più probabile la presenza

di un chitone manicato.

L’andamento delle pieghe nella parte superiore del corpo suggerirebbe un modello di pe-

plophoros di quinto secolo, quale quello adottato dalle Cariatidi dell’Eretteo, una iconograia

molto in voga in età augustea se si pensa alle copie realizzate per l’attico dei portici del Foro di

Augusto. Tuttavia anche se il richiamo all’iconograia delle divinità di quinto e quarto secolo a. C.

è evidente, appare chiaro che non è possibile trovare un preciso modello nella scultura classica,

come sosteneva il Rizzo.

Il testo esamina dettagli iconografici e interpretativi di un rilievo scultoreo, probabilmente una base, con una rappresentazione di figure femminili legate al culto di Vesta. Si ipotizza che la figura centrale, caratterizzata dal panneggio e dal mantello con una chiusura alla base del collo, possa essere una sacerdotessa con il suibulum (il tipico mantello delle vestali), identificata con la Vestalis Maxima. Questa interpretazione si basa su specifici dettagli come il panneggio e la posizione isolata a destra della dea Vesta, che distingue questa figura rispetto al resto del gruppo.

L’analisi prosegue confrontando il rilievo con altre rappresentazioni simili, come la peplophoros dell’altare di Sorrento, interpretata come personificazione della Pudicitia, la virtù della modestia femminile. Questa personificazione era spesso collegata a contesti matrimoniali e alla figura di Livia, moglie dell’imperatore Augusto, accostata per virtù a divinità come Vesta e Pudicitia stessa. Il rilievo quindi si inserisce nel più ampio programma di moralizzazione augustea, che promuoveva virtù tradizionali romane.

Si discute inoltre il contesto architettonico raffigurato, con il possibile tempio di Vesta sul Palatino, un edificio rotondo vicino alla casa di Augusto, che sembrerebbe un riflesso simbolico del culto ufficiale nel Foro. Tuttavia, alcune interpretazioni divergono, sostenendo l’idea di una scena svolta nel Foro stesso, benché la presenza della Vestalis Maxima suggerisca che l’episodio si svolga alla presenza della dea in un contesto cerimoniale piuttosto che in una processione.

In sintesi, il rilievo celebra simbolicamente le virtù femminili legate alla sfera domestica e sacra, sottolineando la devozione del regime augusteo per valori come la pudicizia e la pietas, e consolidando visivamente il ruolo di Livia come modello di virtù per le donne romane.

La vasta difusione di rappresentazioni del Palladio testimonia dunque della grande impor-

tanza che esso assume nel contesto dell’ideologia augustea: è il Palladio, più ancora di Vesta, ad

essere il garante della continuità di Roma e dell’impero ed è su di esso che si accentra l’atten-

zione della propaganda. L’inaugurazione di un culto palatino di Vesta, con le connotazioni allo

stesso tempo pubbliche e gentilizie della domus del principe, a maggior ragione non poteva

prescindere dallo stretto rapporto fra la divinità e il Palladio: il culto ne sarebbe stato in qual-

che modo sminuito, per non dire svuotato. Il Palladio all’interno di quello che si può deinire il

fanum Vestae palatino altro non è che un attributo della dea, da cui essa non può prescindere.

La controprova dell’esistenza di questo importantissimo elemento nel culto palatino è la famo-

sa iscrizione di Priverno della metà del quarto secolo d. C. in cui è citata la carica di praeposi-

tus Palladii Palatini .

In questo stesso senso possono essere interpretate le due statue sui pilastri all’esterno del-

l’ediicio rotondo palatino: non in diretta relazione con Vesta quanto piuttosto con il Palladio,

quale simbolo dell’aeternitas dell’impero e in questo caso anche della dinastia.

In conclusione possiamo afermare che il lato A della base di Sorrento raigura una scena

che si svolge in un’area strettamente connessa con la casa del princeps ed il santuario palati-

no di Vesta.

Ancora una volta la lacuna della scena centrale grava pesantemente sull’interpretazione del

singolo lato e dell’intero monumento, anche perché le fonti non ci hanno lasciato informazioni

sicure circa i rituali e le caratteristiche cultuali che informavano questo culto palatino. A parte

le notizie calendariali sulla fondazione, è opportuno ricordare una serie di sacriici oferti da-

gli Arvali a Vesta nel bosco della Dea Dia, inora mai citati nei discorsi relativi al culto di Ve-

sta palatina: in ben due occasioni, il  maggio del  e il  novembre del , vengono oferte

una vacca, un toro ed una pecora. Se si può ritenere certo che i due bovini siano rispettivamente una

vacca ed un toro (la resa del collo ed in particolare del gozzo del secondo animale non mi sembra la-

scino dubbi), meno sicura è l’identiicazione dell’ovino con un ariete: la testa risulta molto danneggia-

ta al punto di non lasciar percepire la presenza delle corna. Tuttavia la posizione del braccio destro

del personaggio che precede il gruppo (il victimarius Koeppel o. c. cat.  n. ) indica chiaramente che

quest’ultimo trascinava l’animale per le corna (meno probabile che lo tirasse per un orecchio), il che

implica trattarsi di un ariete.

sia oferto al culto del foro, l’altro a quello del Palatino, ma oltre ad attestare ulteriormente la

continuità di quest’ultimo non ne otteniamo ulteriori delucidazioni.

Di maggiore interesse sembra invece il fatto che la monetazione tiberiana che celebra la di-

vinizzazione di Augusto, porti al verso proprio la rappresentazione del fanum Vestae palatino,

conferendo a questo culto un ruolo importante non solo nella divinizzazione del princeps, ma

anche nella successione dinastica.

Il senso dello sdoppiamento del culto di Vesta è stato ampiamente chiarito da Augusto Fra-

schetti: «La connessione tra la persona di Augusto e il pontiicato massimo sarà rappresentata

come eminentemente familiare e di carattere gentilizio. Essa non si fondava né sull’eredità cesa-

riana, né sull’ambiguo precedente costituito da Iulus, il capostipite degli Iulii. Mettendo in atto

una strategia diversa, che non poteva non coinvolgere eventualmente anche altri membri della

domus Augusta, il principe situava una connessione a livello molto più alto, chiamando in cau-

sa per stabilirla la stessa Vesta, il «focolare comune» della città

63 ». Se tale rapporto è giustiica- to e mediato dall’assunzione del pontiicato massimo da parte di Augusto e poi, dal  d. C., di Tiberio, in seguito il tramite della carica sacerdotale non sarà più ritenuto necessario: da Caligola a Commodo l’imperatore non assurgerà più al massimo pontiicato.

Il Palladio all’interno dell’ediicio, citazione di quello del foro, conferisce al culto di Vesta pa-

latina «allo stesso tempo pubblico e privato» e dunque alla dinastia cui esso presiede, le stesse

caratteristiche di eternità che il vero Palladio assicurava alla res publica romana. Il toro e l’arie-

te sono le vittime sacriicali deputate a sancire questa aeternitas.

L’autore discute l’importanza simbolica del Palladio e del suo ruolo nell’ideologia augustea. La dedica del Palladio nel contesto augusteo va oltre la semplice rappresentazione di Vesta, divenendo simbolo di continuità e protezione per l’Impero Romano. La rappresentazione del Palladio si estende a elementi decorativi imperiali, come le corazze degli imperatori e i rilievi decorativi, per rafforzare l’immagine dell’aeternitas dell’impero, connessa sia alla casa del princeps che al tempio di Vesta sul Palatino. La simbologia imperiale associata al Palladio prevale quindi su quella religiosa, confermando la centralità del Palladio come garante dell’eredità e della stabilità di Roma.

Inoltre, l’autore propone che il santuario di Vesta sul Palatino non sia un semplice edificio templare ma un’area sacra che ospita un sacrario. La rappresentazione del tempio e i sacrifici rituali, come i simbolici ariete e toro, collegano ulteriormente il culto palatino di Vesta alla sfera imperiale e familiare di Augusto, sottolineando come le rappresentazioni del Palladio, più di quelle della stessa Vesta, incarnino la tutela dell’impero.

In sintesi, l’interpretazione suggerisce che la presenza del Palladio nel santuario palatino augusteo serva come pilastro simbolico per la dinastia e l’Impero, tanto da mantenere la sua importanza anche dopo l’esclusione di Vesta dai culti ufficiali.

Le considerazioni metrologiche applicate ai rilievi del monumento obbligano ad un’altra con-

clusione. Il personaggio femminile presenta ancora una volta le dimensioni riservate agli uma-

ni nell’ambito dei rilievi della base, visto che la sua altezza è la stessa del coribante che segue

immediatamente la dea. Quest’ultima, esattamente come nel caso della Vesta del lato A, da se-

duta è alta tanto quanto gli altri due personaggi conservati.

L’isolamento di questa igura fra il bordo del rilievo ed il gruppo relativo a Magna Mater fa

sì che essa debba essere concettualmente, così come iconograicamente legata alla dea. Il con-

fronto con la igura a destra di Vesta sul lato A potrebbe anche spingerci ad ipotizzare una ripe-

tizione dello stesso personaggio: un membro della famiglia imperiale, connotato come Pudici-

tia oppure la stessa personiicazione di Pudicizia. Il culto della Magna Mater a Roma è sempre

stato connotato in senso fortemente aristocratico – si pensi soltanto alle leggende sull’arrivo

della dea in città

Non possiamo purtroppo spingerci a eventuali tentativi di integrazione a causa della gran-

de lacuna che ha interessato questo lato.

Il Lato B

Nel secondo libro delle elegie Properzio dà un’entusiastica descrizione del santuario di Apollo,

della cui inaugurazione dà una vivida immagine.

«Mi chiedi perché mai giunga tardi? L’aureo portico di Apollo è stato inaugurato dal grande

Cesare. Lo spazio era afollato da colonne di marmo africano, fra le quali si trovava la folla del-

le iglie del vecchio Danao. Qui l’Apollo marmoreo sembra cantare, mentre la lira resta in silen-

zio, e realmente mi appare più bello del dio stesso; intorno all’altare inoltre si ergeva il gregge

di Mirone: quattro buoi dell’artista, statue che sembrano vive. Quindi sorgeva al centro il tem-

pio marmoreo, più caro al dio anche della stessa patria Ortigia: sul frontone era il carro del Sole

e le porte erano mirabili opere di avorio: nell’una era rappresentata la cacciata dei Galli dalla

cima del Parnaso, l’altra era rattristata dalla morte della prole di Tantalo. Di qui, fra la madre e

la sorella, lo stesso dio Pizio suona i carmi, vestito di una lunga veste.»

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L’identiicazione delle igure riprodotte sul lato B con il gruppo di statue di culto del tem-

pio

95

, è uno dei pochi punti fermi negli studi relativi sia alla base di Sorrrento sia alle iconogra-

ie delle statue raigurate.

Dal punto di vista dell’interpretazione generale della base, va ancora una volta ribadita la

grande anomalia di questa raigurazione: nei rilievi romani le divinità sono normalmente rap-

presentate dai loro templi oppure compaiono come statue all’interno dei templi stessi, a volte

davanti ad un tempio. Qui invece non c’è nessuna citazione dell’ediicio, un’assenza ancora più

 Si pensi al giudizio ammirato di Dionigi (Dion. Hal. ant. , ) per la composta interpretazione romana dei riti frigi.

pregnante se si confronta con la dettagliata raigurazione dello sfondo architettonico sui lati

A e C. Le divinità, sul lato B, sono rappresentate per così dire personalmente. La loro presenza

non vuole alludere dunque alla prodigalità e alla pietà di Augusto nella costruzione del gran-

dioso tempio di Apollo Palatino, ma semplicemente sottolineare la presenza delle tre divinità,

la loro partecipazione ad un evento. In questo senso esse sono estrapolate dal loro contesto to-

pograico ed architettonico, con un procedimento in qualche modo analogo all’evocazione di

Marte e Venere ed Eros davanti alla casa di Augusto sul lato C.

Un discorso indipendente va invece fatto sulle iconograie che informano le tre igure.

Un’altra certezza che deriva dalla lettura dei versi di Properzio è l’esistenza di due distinte sta-

tue di Apollo, l’una dentro la cella, posta fra Latona ed Artemide come è raigurata sulla base,

l’altra nell’area sacra

96

Il testo analizza l’iconografia e le interpretazioni della base di Sorrento e delle figure scolpite sul frontone del tempio di Quirino. L’identificazione di una figura maschile seduta con cornucopia è controversa: inizialmente associata al Genius Augusti o a Romolo, l’analisi suggerisce che questa figura rappresenti invece il Genius Loci, forse simbolo del Palatino, importante nella mitologia romana e vicina all’immagine del fiume Tevere. Sul lato C, Marte e Venere appaiono come protettori di Roma e della casa di Augusto, rafforzando il legame simbolico tra il princeps e i fondatori di Roma. Il lato D include rappresentazioni di Magna Mater, associata alla castità e alla nobilitas augustea, riflettendo valori morali cari ad Augusto. Il lato B, infine, presenta Apollo e altre divinità in uno stile unico, senza l’usuale presenza di un tempio.

Alcune caratteristiche precise individuano l’Apollo della base di Sorrento rispetto agli altri

esemplari di citaredo ed in particolare all’Apollo Patroos di Euphranor: il più movimentato pan-

neggio in corrispondenza dell’appoggio del chitone sui piedi, il nodo che trattiene il panneggio

al centro sopra la cintura e che crea una serie di pieghe più ampie nella parte inferiore centra-

le del peplo, il peplo aperto sulla sinistra che scende in serie di pieghe sovrapposte ed inine un

kolpos particolarmente accentuato in corrispondenza dei ianchi, cui si sovrappone la cinta.

L’analisi di questi elementi in tutti gli esemplari del gruppo ha portato Linda Jones Roccos

alla conclusione che la statua raigurata sulla base di Sorrento non possa essere che una ela-

borazione tarda, probabilmente romana

L’Apollo rappresentato sulla base di Sorrento presenta caratteristiche distintive rispetto ad altre raffigurazioni, come l’Apollo Patroos di Euphranor. Tra questi elementi spiccano il panneggio più movimentato all’altezza dei piedi, un nodo centrale che trattiene il panneggio sopra la cintura e il kolpos accentuato sui fianchi, con la cintura sovrapposta. Tali dettagli hanno portato Linda Jones Roccos a ipotizzare che si tratti di una reinterpretazione romana, un’idea supportata da documentazione, ma accolta con scetticismo.

Jones Roccos ha associato alla tipologia dell’Apollo Palatino, rappresentata sulla base di Sorrento, altre opere come la statua del Museo Biscari di Catania, il torso Corsini e l’Apollo Borghese. Un particolare della base di Sorrento, la lira appoggiata al braccio sinistro di Apollo, permette di distinguere questo gruppo dagli altri: alcune statue, come l’Apollo Borghese, non mostrano tracce di tale appoggio, segnando una distinzione significativa.

Sul piano numismatico, monete dell’epoca augustea raffigurano Apollo con la lira, riconducibile all’iconografia celebrativa della vittoria di Azio. Questa rappresentazione, generalmente attribuita alla statua del tempio di Apollo Palatino, potrebbe invece corrispondere al monumento celebrativo innalzato per la vittoria. Successive monete antonine mostrano differenze nell’abbigliamento e nella posa, suggerendo che si tratti di statue diverse, come ipotizza Hans Jucker.

Inoltre, è noto che il santuario palatino ospitava almeno tre statue di Apollo: una statua di culto principale, una statua esterna e una all’interno della biblioteca, quest’ultima menzionata da Tacito e raffigurante Augusto nelle sembianze di Apollo.

L’iconografia di una statua di Apollo, esplorando la relazione tra diverse fonti e opere artistiche. Si nota una continuità nell’immagine di Apollo, soprattutto nella rappresentazione della lira, che però non è suonata. Questo si collega con il passo di Properzio che descrive Apollo come più bello del marmo, con la lira in mano, ma silenziosa. Sebbene la cronologia delle fonti presenti problemi, si suggerisce che la ristrutturazione del santuario palatino non avrebbe alterato drasticamente l’aspetto delle statue.

Le monete del secondo secolo rappresentano l’unica testimonianza utilizzabile per comprendere lo stile delle statue. Sebbene non si possa determinare con certezza lo stile delle sculture, la figura sembra ispirata dalla tradizione scopadea, con un movimento che richiama il «contrapposto» e un panneggio che potrebbe risalire al V secolo, ma non estraneo al maestro Skopas.

Si accenna anche alla scultura di Apollo da Alicarnasso al British Museum, che presenta una posa dinamica, simile all’iconografia apollinea del santuario di Apollo Palatino. Tuttavia, la statua rappresentata nella base di Sorrento sembra differire dall’Apollo Palatino di Skopas e potrebbe essere una rielaborazione romana di una statua più antica, come l’Apollo Patroos di Euphranor, descritto da Properzio.

Infine, si discute la possibilità che la statua di Artemide e Latona, accanto alla statua di Apollo, siano opere di Timoteo e Ceisodoto, sebbene questo non possa essere escluso a priori, considerando che Plinio descrive le statue senza specifiche topografiche. Si conclude che l’identificazione dell’Apollo Palatino di Skopas sia distinta dalla statua della base di Sorrento, ma che restano da chiarire i dettagli riguardanti la posizione e l’interpretazione delle altre figure.

La storia e l’interpretazione delle statue rappresentate sulla base di Sorrento, in particolare quelle di Artemide, Latona e Apollo, contestualizzandole nell’arte greca e romana. Viene discusso il significato del termine “delubrum”, utilizzato da Plinio per indicare luoghi sacri, che può riferirsi sia all’interno della cella di un tempio che all’intera area sacra. In particolare, si indaga l’iconografia di Artemide sulla base di Sorrento, proponendo che le figure femminili siano state realizzate in momenti diversi, ma associate in un contesto augusteo. Vengono analizzati i dettagli iconografici della statua di Artemide, come la posizione delle gambe e delle mani, che riflettono tradizioni precedenti, ma presentano elementi unici, suggerendo una possibile elaborazione romana.

Vengono esplorati anche altri aspetti iconografici, come il sistema delle due stringhe incrociate sul petto di Artemide, che è inusuale per l’epoca, ma che potrebbe derivare da un fraintendimento dello scultore. Si discute anche delle difficoltà nell’attribuire la statua a Timoteo, con il riconoscimento che alcuni tratti stilistici potrebbero sembrare discordanti con altre sue opere, ma che l’attribuzione rimane possibile. L’articolo conclude riflettendo su come l’Artemide della base di Sorrento potrebbe essere un esempio di elaborazione romana, e suggerisce che potrebbe essere attribuita a Timoteo, con implicazioni anche per l’attribuzione dell’Asclepio tipo Argo.

La rilettura generale dell’insieme dei rilievi permette ora una valutazione più completa del mo-

numento. L’interpretazione del Rizzo, che voleva vedervi una celebrazione della nascita del cul-

to palatino di Vesta, mi sembra esclusa da una semplice considerazione cronologica: un monu-

mento creato in occasione dell’evento del  a. C. non avrebbe potuto riportare l’iconograia di

Marte Ultore, che viene uicialmente inaugurata insieme con il relativo tempio nel  a. C. Do-

vremmo altrimenti ammettere una celebrazione di molto successiva all’evento, evidentemen-

te svuotata di senso.

D’altra parte il confronto con i cosiddetti rilievi storici allontana la base di Sorrento da questa

categoria. Nei rilievi che celebrano eventi realmente accaduti lo sfondo architettonico, connota-

to da precisi riferimenti topograici, caratterizza interamente la o le scene raigurate. È questo

il caso dei rilievi Valle Medici, per restare in un ambito cronologico non troppo distante dalla

base, ma anche per esempio degli anaglypha Traiani, dei rilievi di Marco Aurelio ed altri. In al-

tri casi le scene sono prive di sfondo architettonico, o perché non si vuole dare una precisa ca-

ratterizzazione topograica, si pensi alle scene di trionfo dell’arco di Tito, oppure perché volu-

tamente si assegna alla scena un carattere atemporale, mitico, come nel caso dell’Ara Pacis. Una

terza categoria, meno indagata, raigura scene realistiche ma non reali davanti ad uno sfondo

architettonico molto caratterizzato

163

. Come si vede la base di Sorrento non rientra in nessu-

no di questi casi: lo spazio architettonico è indicato molto precisamente su due soli lati che in-

dividuano un unico contesto senza soluzione di continuità. L’assenza di uno sfondo architetto-

nico sul lato D potrebbe essere determinata dall’ampia lacuna; anche in questo caso tuttavia ci

si troverebbe di fronte ad un’anomalia: la Magna Mater assisterebbe ad una scena che si svol-

gerebbe in un luogo che non è il suo tempio. Né si può pensare ad un consesso di sole divini-

tà, visto che l’anisocefalia esclude il personaggio femminile che segue il coribante dalla catego-

ria delle divinità. L’uso dello sfondo architettonico non è dunque quello normalmente utilizza-

to nei cosiddetti rilievi storici.

Il brano discute la rappresentazione di una figura accovacciata davanti alla dea Leto, che si ipotizza sia la Sibilla, con l’iconografia descritta come plausibile per Ceisodoto II. Tuttavia, la figura accovacciata non permette di analizzare il gioco del panneggio sulle gambe. L’articolo riflette anche sulla posizione della Sibilla nella scena, indicando che potrebbe non essere parte integrante del gruppo originario del tempio, ma una possibile aggiunta successiva dello scultore.

L’autore respinge l’interpretazione proposta dal Rizzo, che vedeva nella base di Sorrento una celebrazione del culto di Vesta, argomentando che sarebbe cronologicamente incoerente. Invece, si suggerisce che la base di Sorrento non rientra nei rilievi storici tradizionali, in quanto non vi è un preciso sfondo architettonico a collegare la scena con un evento storico. La base sembra raffigurare divinità in contesti topografici non loro, sottolineando il rapporto speciale tra queste divinità e la casa del princeps.

Si conclude che la base di Sorrento potrebbe rappresentare una sorta di presentazione ufficiale dei “numina” della domus Augusta, enfatizzando il legame delle divinità con la famiglia imperiale piuttosto che con eventi storici concreti.

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L’Importanza Storica e Culturale della Base di Augusto nel Museo Correale di Sorrento

Del prof Mario Russo Ispettore Onorario Soprintendenza Archeologica

Generico novembre 2024

Nessuno di noi, cittadini sorrentini, ha mai pienamente realizzato l’importanza di un monumento come la Base di Augusto, una preziosa testimonianza che, sebbene frammentata e maltrattata dal tempo e dagli eventi storici, rappresenta uno dei tesori più significativi di Sorrento. È un’opera che va oltre la semplice proprietà: non appartiene alla sovrintendenza né è patrimonio esclusivo del museo. In effetti, si potrebbe quasi dire che essa è parte del patrimonio spirituale della città stessa e della diocesi, poiché proviene dall’antico campanile, legata anche alla figura del vescovo.

Questo monumento è strettamente legato alla figura di Augusto e alla sua dimora sul Palatino, oltre che ai sacri edifici connessi alla sua figura. Per raccontarne l’importanza, possiamo suddividere l’argomento in vari punti chiave: la Casa di Augusto sul Palatino, i templi di Apollo e Vesta, la diffusione del mito imperiale in Oriente e Occidente, e infine il contesto campano, in particolare quello di Pompei e Sorrento.

La Casa di Augusto sul Palatino

Secondo gli scrittori antichi, Augusto, nato nel 63 a.C., visse gran parte della sua vita sul Palatino, cuore politico e sociale della Roma repubblicana e imperiale. Questa residenza, ricostruita in seguito a un fulmine che ne colpì una parte, rappresenta un simbolo della devozione e della connessione di Augusto con le divinità romane, Apollo e Vesta. La Casa di Augusto divenne il nucleo attorno a cui ruotava la vita pubblica e privata dell’imperatore, in un perfetto equilibrio tra il sacro e il politico.

I Templi di Apollo e Vesta

Augusto decise di costruire il Tempio di Apollo in una parte della sua residenza, scelta dagli aruspici come prediletta dalla divinità stessa. Oltre al tempio, vi aggiunse un portico e una biblioteca con testi greci e latini. Il tempio fu inaugurato nel 28 a.C. e rappresentava un elemento essenziale per celebrare i riti sacri e i valori della nuova età d’oro, come ben descritto da Orazio nel suo Carmen Saeculare.

La Diffusione del Mito Imperiale

Dopo la vittoria su Antonio e Cleopatra, Augusto diede avvio a un nuovo culto imperiale, diffondendo il mito del suo potere sia in Oriente che in Occidente. Da Atene a Cesarea, templi e altari furono dedicati all’imperatore, celebrato come portatore di pace e stabilità. In Oriente, dove si era già abituati alla figura del sovrano divinizzato, il culto attecchì rapidamente, ma anche in Occidente l’adorazione di Augusto divenne una pratica consolidata, benché ufficialmente l’imperatore continuasse a essere considerato un mortale.

La Base di Augusto e la Campania

La Base di Augusto, presente nel Museo Correale di Sorrento, è un significativo esempio di come il culto imperiale si diffondesse fino ai centri della Campania, quali Pompei e Sorrento. Questo monumento racconta il legame tra la regione e la figura augustea, evidenziando l’impatto culturale e artistico che le politiche di Augusto ebbero anche nelle province.

Una Testimonianza Preziosa per Sorrento

Attraverso i secoli, la Base di Augusto è stata testimone silenziosa della storia. Il primo a menzionarla fu Richard Pococke, viaggiatore e storico inglese, nella metà del Settecento, il quale riferì di iscrizioni e bassorilievi osservati presso la casa dell’arcivescovo. Oggi, grazie agli studi archeologici e alle ricerche storiche, sappiamo molto di più su questo straordinario reperto, che resta un pilastro della nostra memoria storica e culturale.

In conclusione, la Base di Augusto è molto più di un reperto antico. Rappresenta un collegamento tangibile con la storia di Roma, il culto imperiale, e il ruolo della Campania in quel contesto. Questo monumento, conservato con orgoglio al Museo Correale, non è solo un patrimonio della città di Sorrento, ma un emblema della cultura romana e dell’eredità augustea che ancora oggi permea la nostra identità.

Generico novembre 2024Generico novembre 2024Generico novembre 2024Generico novembre 2024Generico novembre 2024Generico novembre 2024

Alcune considerazioni sulla cosiddetta “Base di Sorrento”  Marion Großmann

La cosiddetta “Base di Sorrento” (o “Base di Augusto”) è un piedistallo di statua tardo-augusteo, pubblicato da G. E. Rizzo (Bulletino Comunale 60, 1932, 77-109) negli anni ’30. L’originale è conservato nel Museo Correale di Terranova a Sorrento, mentre una copia si trova nel Museo della Civiltà Romana a Roma. Le singole lastre sono realizzate in marmo lunense, e l’intera base può essere ricostruita con dimensioni di circa 2 x 1 metri.

La facciata anteriore è occupata da una scena del culto di Vesta: la Dea è seduta a destra, affiancata da due figure non ancora chiaramente identificate; cinque Vestali si avvicinano a lei. Al centro si trova l’Imperatore Augusto, identificato come Pontefice Massimo. Sullo sfondo, a sinistra, è visibile una portico e, a destra, un tempio rotondo con il Palladio al suo interno. Questi riferimenti architettonici suggeriscono una localizzazione della scena sul Palatino; l’edificio sacro è il tempio di Vesta, dedicato da Augusto nel 12 a.C. in una parte della sua residenza. Già nel 1995, Claudia Cecamore (BullComm 96, 1994-95, 9-32) aveva interpretato un piano circolare rinvenuto sul Palatino in questo contesto.

Le due facce laterali della base di Sorrento mostrano anch’esse scene legate alla casa di Augusto sul Palatino: sul lato destro si vedono Apollo, Latona e Diana, con la Sibilla inginocchiata in primo piano. Si tratta delle tre statue tardo-classiche che Augusto fece importare per il tempio di Apollo Palatinus, da lui votato nel 36 a.C. presso Naulochos, e un riferimento figurativo ai libri sibillini, trasferiti dal tempio di Giove Capitolino al tempio di Apollo Palatinus. Il tempio era direttamente collegato all’abitazione privata di Augusto (ad esempio H. Knell, Bauprogramme römischer Kaiser [2004] 52-57). La faccia sinistra della base di Sorrento mostra Romolo con Marte e una puttina, proprio davanti al portale della casa di Augusto, decorato con una corona civica; qui è probabilmente rappresentato il Lupercale situato sulle pendici del Palatino.

Anche il retro – purtroppo conservato solo per un terzo – si riferisce direttamente al Palatino: si tratta di una scena dal culto di Cibele/Magna Mater. La dea madre orientale è rappresentata seduta e affiancata da un leone, mentre accanto a lei danza un Coribante. Lungo il lato sinistro appare una figura femminile, poco studiata fino ad ora. Cecamore (RM 111, 2004, 105-140) la interpreta come Pudicizia, personificazione della castità femminile. Questo culto, che guadagnò importanza durante il periodo augusteo, rappresenterebbe sulla base di Sorrento una “mitigazione” del culto estatico di Cibele. Potrebbe anche trattarsi di Livia? Se si considera che nel 204 a.C. la Vestale Quinta Claudia portò miracolosamente la statua della dea Cibele da Ostia a Roma e che Livia, come Quinta Claudia, apparteneva alla gens Claudia, una lettura come Livia appare probabile. L’abbigliamento e il gesto sono compatibili con i motivi tradizionali (ad esempio A. Alexandridis, Le donne della casa imperiale romana [2004] passim). Non dobbiamo dimenticare che, oltre ad Augusto, anche Livia risiedeva sul Palatino in prossimità dei culti rappresentati sulla base di Sorrento.

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