Cos’è l’antropologia culturale? Una riflessione a partire dal film Parthenope di Paolo Sorrentino

7 novembre 2024 | 17:36
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Cos’è l’antropologia culturale? Una riflessione a partire dal film Parthenope di Paolo Sorrentino

In queste settimane di metà autunno 2024, uno dei temi più discussi riguarda il film “Parthenope” di Paolo Sorrentino: a molti è piaciuto, ad altri invece no. Tutte le opinioni sono legittime e, chiaramente, anche le modalità in cui vengono espresse, a seconda delle sensibilità di chi si cimenta con le recensioni da social. In questo articolo, io non esprimerò giudizi sull’opera, ma proverò a rispondere a un quesito che ricorre più volte nelle quasi tre ore di film, ossia: cos’è l’antropologia culturale? Per farlo, devo necessariamente contestualizzare la domanda fornendo un minimo di trama, ma senza svelare nulla di particolarmente importante per chi debba ancora andare al cinema. “Parthenope” ci introduce nel cuore di una Napoli mitica e tragica, che diventa cornice e protagonista di una narrazione complessa e provocatoria: la storia ruota attorno alla figura di Parthenope Di Sangro, una giovane donna che attraversa le tensioni della sua famiglia e della sua città, in una ricerca incessante di senso e identità. Centrale in questo viaggio è l’incontro con il professore universitario Devoto Marotta, interpretato da Silvio Orlando, docente di antropologia che incarna una visione disincantata e profonda della disciplina. Tra i due si instaura un rapporto intenso e sfaccettato, con momenti di sfida intellettuale che toccano la natura dell’antropologia stessa, aprendo uno spazio di riflessione sulla visione che questa disciplina offre sul mondo.
La domanda si ripropone in varie fasi del film. All’inizio, durante il brillante esame universitario di Parthenope, la protagonista confessa di non saper definire l’antropologia, il che spinge il professore ad aggiungere una lode al suo 30, strappando una risata agli spettatori. Poi, verso la fine, arriva la tanto attesa risposta del personaggio interpretato da Silvio Orlando: «L’antropologia è vedere». Tuttavia, è un altro momento a rappresentare un punto centrale per la riflessione che sto sviluppando, quando il professore e Parthenope stringono un patto: «Io non la giudicherò mai e lei non mi giudicherà mai». Questa frase, pronunciata solennemente, esprime un principio cardine dell’antropologia contemporanea: la sospensione del giudizio. Essa rappresenta una sfida metodologica fondamentale, propria di una disciplina che richiede un continuo riesame di sé e delle proprie affermazioni, come ho scritto per “Il mondo in tasca” in un precedente articolo.
L’evoluzione della nozione di cultura: l’essenza dell’antropologia
L’antropologia culturale è comunemente intesa come lo studio dell’umanità nella sua interezza, comprendendo comportamenti, credenze, strutture sociali e pratiche culturali. Questa visione si radica nel concetto di “cultura” introdotto da Edward Burnett Tylor nel 1871, quando nel suo “Primitive Culture” ampliò la nozione di cultura oltre il sapere accademico delle classi istruite, includendo il bagaglio di conoscenze, credenze e usanze condiviso da tutti i membri di una società. Tylor rivoluzionò così il pensiero dell’epoca, affermando che anche gli analfabeti e i popoli allora considerati “primitivi” possiedono una cultura: parlano una lingua, nutrono credenze spirituali, osservano rituali e aderiscono o trasgrediscono alle norme della loro comunità. Questa prospettiva segnò un cambiamento epocale, riconoscendo la dignità culturale a ogni società umana.
Tuttavia, la definizione tyloriana di cultura, seppure avanzata per il suo tempo, oggi rivela dei limiti: tende infatti a essere rigida e schematica, come se la cultura fosse un insieme statico di norme e pratiche trasmesso in modo univoco. Questa critica emerse già agli inizi del XX secolo, quando Franz Boas rese plurale quel concetto: esistono le culture, nel senso che ciascuna di esse è storica e dunque può cambiare. In effetti, nessun essere umano è legato indissolubilmente alla propria cultura d’origine: sebbene ogni individuo riceva un’eredità culturale dal contesto in cui cresce, tale patrimonio non è un destino ineluttabile. Piuttosto, ciascuno lo interpreta, lo modifica, vi apporta nuovi significati o lo rifiuta in parte o del tutto, adattandolo alle proprie esigenze e ai cambiamenti della società.
Questo processo di reinterpretazione è alla base della dinamica culturale e della pluralità identitaria: se fossimo tutti confinati rigidamente nella cultura in cui nasciamo, non esisterebbe né il mutamento sociale né la storia.
Pertanto, l’antropologia culturale è la disciplina che si propone di esplorare e comprendere le diverse modalità con cui le società umane rispondono ai bisogni fondamentali e costruiscono il proprio rapporto con l’ambiente. In altre parole, essa analizza come le culture danno senso all’esistenza, creando risposte uniche e originali alle sfide universali della vita. Questo campo di studi non si limita a osservare o catalogare le diversità culturali, ma cerca di cogliere i processi attraverso cui i gruppi umani si trasformano e adattano, sviluppando norme, valori, pratiche e istituzioni per rispondere a domande cruciali come il sostentamento, l’organizzazione sociale, la spiritualità e la relazione con il mondo naturale.
Un aspetto fondamentale dell’antropologia culturale è il suo carattere dinamico. Le società umane, infatti, non sono entità statiche: mutano costantemente, influenzate da fattori interni (come le tensioni sociali o le trasformazioni dei valori) ed esterni (come le interazioni con altre culture, i cambiamenti climatici e tecnologici, le migrazioni). Di conseguenza, l’antropologo culturale deve essere sempre pronto a osservare queste modifiche e a interrogarsi su come i gruppi sociali rispondano alle nuove sfide, riscoprendo vecchie tradizioni o inventandone di nuove.
In questo senso, l’antropologia culturale si distingue per l’approccio comparativo e olistico: essa non si limita a una singola cultura ma cerca di tracciare connessioni tra le diverse espressioni culturali, mettendo a confronto pratiche e credenze per evidenziare sia la varietà delle risposte umane sia i punti di contatto e convergenza. Questo approccio offre una visione sfumata e profonda dell’umanità, che evita le generalizzazioni e riconosce il valore della diversità come fonte di arricchimento e di comprensione.
La tripartizione di Lévi-Strauss: etnografia, etnologia, antropologia
Claude Lévi-Strauss, uno dei più influenti antropologi del XX secolo, ha proposto una distinzione fondamentale tra etnografia, etnologia e antropologia, concependoli come tre momenti di un’unica ricerca:
1. L’etnografia è la prima fase della ricerca antropologica, che si concentra sull’osservazione e descrizione diretta delle culture attraverso il lavoro sul campo: si occupa di raccogliere dati concreti, usando tecniche come l’osservazione partecipante e le interviste per documentare le pratiche, i costumi, le istituzioni e i simboli di una comunità. L’etnografo è quindi il ricercatore che va sul terreno, osserva e registra dettagliatamente le manifestazioni culturali di un gruppo umano.
2. L’etnologia rappresenta, invece, il primo passo verso la sintesi, ampliando l’analisi a un livello comparativo: studia i dati raccolti dall’etnografia, mettendo a confronto le culture per trovare somiglianze e differenze, e cerca di rispondere a domande di carattere geografico, storico e sistematico. Secondo Lévi-Strauss, l’etnologia estende la conoscenza locale, collocando le specificità di una cultura all’interno di quadri di significato più ampi.
3. L’antropologia, infine, è la sintesi ultima, nel senso che aspira a una visione globale dell’umanità: integra i risultati dell’etnografia e dell’etnologia per sviluppare teorie generali sui tratti comuni e le diversità delle società umane. Questa fase teorica abbraccia uno sguardo d’insieme che include la totalità dell’esperienza umana, considerandola sia nella sua continuità storica sia nella sua estensione geografica. Lévi-Strauss sottolinea come l’antropologia aspiri a conclusioni universali, valide per le società umane in ogni epoca e luogo, dall’antichità all’era moderna.
Nella pratica di terreno, queste tre fasi non sono separate rigidamente, anzi restano interdipendenti: l’etnografia fornisce la base empirica su cui l’etnologia costruisce le sue sintesi, e l’antropologia amplia tali sintesi fino a formulare teorie generali.
Vedere e farsi vedere: l’antropologia come scienza dell’alterità
Pertanto, considerando che la cultura non è un’entità statica, ma un processo in continua evoluzione, e che ogni individuo è in grado di negoziare e reinterpretare i significati culturali, contribuendo al mutamento collettivo, allora il focus dell’antropologia culturale non può che essere la diversità. Oggi, in effetti, questa disciplina è considerata come la “scienza dell’alterità”, nel senso che è il campo di studio delle differenze umane, esplorando l’ampio spettro di pratiche, credenze e valori che caratterizzano le varie culture. L’obiettivo è cercare di comprendere come e perché le culture si sviluppano, cambiano e si differenziano tra loro, senza giudicare una cultura superiore o inferiore a un’altra. Mettendo al centro la “sospensione del giudizio”, l’antropologia culturale ritiene che ogni cultura abbia una propria coerenza e razionalità interna, dacché non bisogna solo osservare e descrivere le differenze, ma anche entrare in empatia con le altre visioni del mondo. Nell’esperienza concreta, avvicinandosi all’“altro” l’antropologo individua affinità e divergenze con le sue stesse prospettive culturali, comprendendo così meglio la varietà dell’esperienza umana, proprio come il Marco Polo di Italo Calvino ne “Le città invisibili”, secondo il quale «l’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà». L’antropologia, dunque, non si limita a collezionare curiosità esotiche, ma aspira a rivelare l’unità dell’esperienza umana attraverso la diversità delle forme culturali: conoscere l’altro è un modo per conoscere anche noi stessi, poiché ogni incontro interculturale mette in luce i pregiudizi e le assunzioni che spesso diamo per scontate.
Ha ragione il professore di “Parthenope”, «l’antropologia è vedere», nel senso che mira ad andare oltre la superficie delle cose, per cui, evidenzia Franco La Cecla, è «la capacità di discernimento rispetto a cose che sfuggono perché troppo visibili, sotto gli occhi di tutti» (in “La lapa e l’antropologia del quotidiano”, 2005, pag. 9). Più in particolare, l’antropologia è soprattutto la disciplina del cambio del punto di vista, dal momento che, specifica Clifford Geertz, ambisce a «vedere il mondo dal punto di vista dei nativi» (“Interpretazione di culture”, 1973). Vedere, però, non è solo osservare e cogliere le verità nascoste, svelare le trame invisibili che legano gli individui alla cultura e alla società, ma significa anche “farsi vedere”: nella pratica etnografica, l’antropologo non deve soltanto osservare il mondo dall’esterno, ma lasciarsi coinvolgere, divenendo parte del contesto, e accettando di essere visto e interpretato dalle comunità che studia. È in questa dimensione dialogica e reciproca che l’antropologia acquisisce la sua profondità, superando la distanza tra osservatore e osservato. Secondo questa attitudine contemporanea, la disciplina tende a trasformarsi in uno spazio di incontro e di riflessione critica in cui il ricercatore cerca di superare pregiudizi e costruzioni etnocentriche, per far emergere le molteplici forme di umanità e le varie “normalità” che le culture esprimono.
Il cambio di prospettiva: Parthenope come spunto di riflessione sull’umanità
Che sia piaciuto o meno, il film di Paolo Sorrentino offre un’occasione unica per riflettere sulla natura e sul ruolo dell’antropologia, proprio grazie ai dialoghi tra Parthenope e il suo professore. L’opera apre spunti preziosi su cosa significhi studiare l’essere umano nelle sue molteplici espressioni: attraverso la narrazione visiva e simbolica, il regista riesce a evocare il cuore dell’antropologia, cioè l’incontro con l’alterità e il tentativo di interpretare e trasmettere il significato profondo delle esperienze umane, anche quando sono difficili da catturare a parole.
Tra il “vedere” e il “farsi vedere”, l’antropologia culturale e il cinema non sono solo strumenti di conoscenza, ma ponti che permettono di entrare in realtà altre, stimolando la comprensione e la riflessione critica. Entrambi i campi si confrontano con l’impossibilità di una spiegazione assoluta, poiché ogni cultura, come ogni opera cinematografica, è ricca di sfumature, storie e contraddizioni, ma sia l’antropologo che il regista si trovano accomunati nella loro vocazione di rendere visibile ciò che sfugge alla superficie, aprire spazi di significato e consentire allo spettatore di interpretare.
Da questa prospettiva, la figura di Parthenope è il punto di connessione tra realtà diverse, tra mondi sociali altri, tra passato e presente, tra sacro e profano, tra il conosciuto e l’ignoto. Chiudere il film con la frase «l’antropologia è vedere» diventa allora una dichiarazione di intenti, suggerendo che il compito dell’antropologo – e forse del cinema stesso – non è giudicare o catalogare, ma piuttosto avvicinarsi, osservare e permettere a ciascuno di esplorare nuovi modi di vedere e capire il mondo.