Trionfo per il terzetto dei protagonisti composto dall’eccezionale soprano Jessica Pratt, Armando Likaj e Raffaele Abete, che ha schizzato unitamente all’orchestra dell’Opera di Tirana diretta dal Maestro Jacopo Sipari di Pescasseroli, una partitura non scevra da crepuscolarismi, di conserva con regia e scenografia firmata da Ada Gurra di sapore ossianico. Bene anche il secondo cast affidato alla bacchetta di Vaktang Gabidzashvili con Ramona Tullumani e Ulpiana Aliaj nel ruolo del titolo
Con un bouquet di misteriose rose blu, offerto dall’orchestra e dalla compagnia di canto del teatro dell’Opera di Tirana al direttore Jacopo Sipari di Pescasseroli, un colore dalle valenze positive e legato alla saggezza, alla spiritualità, all’intelletto, alla lealtà, nobiltà e reputazione senza macchia, ricambiato da qualche “furtiva lacrima”, si è conclusa la produzione della Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti, sul palcoscenico della massima istituzione musicale albanese, che segna l’inizio di un lungo e serio periodo di recupero per il braccio del generoso Maestro abruzzese. Quattro repliche, due cast che hanno visto imperare su tutti e tutto Jessica Pratt, che possiede una voce calda, vigorosa, avvolgente, al cui timbro non manca, ed è giusto questa l’eccezionalità, quel riflesso cristallino purissimo, unitamente a quel certo che d’infantile, disarmato e indifeso, connesso col metallo stesso di quel tipo di voce, che si addice all’innocenza e all’infelicità di eroine romantiche, quale è Lucia. La qualità stessa di voce della Pratt, d’altra parte, la ha predestinata a questo ruolo, che è nelle sue corde da sempre e le fa interpretrare una Lucia nel solco della grande tradizione italiana, non ritraendosi di fronte a nessuna delle grandi difficoltà della parte, nemmeno di quelle che sono tradizionalmente aggiunte dall’uso teatrale , e la rischiosa gara col flauto solista, nella scena della pazzia, si è chiusa, come si deve, senza vinti né vincitori, ovvero in quell’armonia perfetta firmata Jessica Pratt-Enalda Gjoni. Nel tenore Raffaele Abete, un dignitoso Sir Edgardo di Ravenswood, abbiamo riconosciuto buone potenzialità, sincerità di partecipazione espressiva, con qualche cessione nel passaggio al registro acuto, mentre tra le voci maschili è svettata la voce di Armando Likaj, il quale è riuscito a dare molto rilievo alla parte di Lord Enrico Ashton, ruolo piuttosto ingrato, lasciando risaltare a pieno l’esuberanza dei suoi mezzi vocali, avvantaggiato dalla lettura dell’opera impressa da Jacopo Sipari. Il basso Bledar Domi, un ottimo Raimondo, che può ora con consapevolezza guardare a ben altri ruoli e Matias Xheli, Arturo, il Normanno di Erlind Zeraliu e Amelda Papa nel ruolo di Alisa, sono riusciti ad offrire ottimo sostegno ai giovani protagonisti, unitamente al coro, presente anche scenicamente nel quadro delle nozze, preparato da Dritan Lumshi. Non possiamo parlare di proprietà stilistica estesa all’intera partitura, da parte del M° Jacopo Sipari il quale, notoriamente, non è un direttore da belcanto, ma che è riuscito a rendere quella sobrietà di mezze tinte, di certi squisiti colori, che pur segnano l’appassionato abbandono del sentimentalismo donizettiano, non agendo con la tecnica precisa del mosaico, ponendo in ogni punto il giusto tono di colore richiesto, ma sfruttando la tecnica accesa dell’affresco, supportato dalle penombre dello spartito e, in particolare, sottese dalla regia. Orchestra superba anche con il cambio di bacchetta sul podio con Vaktang Gabidzashvili, scuola Marco Angius per entrambi, sia per la qualità sonora, che per la naturale interpretazione, nel segno del rispetto della partitura. La bellezza di “Lucia di Lammermoor” risiede, dunque, nella sua capacità di mescolare melodie indimenticabili con una narrazione drammatica intensa, e la sua struttura, pur con qualche momento di stasi, riesce a mantenere un alto livello di coinvolgimento emotivo. L’opera è un perfetto esempio di come Donizetti sapesse giocare con le convenzioni dell’epoca, creando un’opera che, pur con alcune imperfezioni, rimane un capolavoro indiscusso del melodramma italiano, opera complessa che continua a suscitare dibattiti e analisi, dimostrando la sua rilevanza e il suo fascino nel panorama operistico. Comincia molto bene, con un primo atto (più esattamente Prologo) di colorito romantico-scozzese felicemente azzeccato e chiuso da un duo (“Verranno a te sull’aure”) che vanta una delle più belle melodie dell’Ottocento teatrale italiano. Il miracolo si ripete, naturalmente, alla chiusa della partitura con “Tu che a Dio spiegasti l’ali”, che Donizetti non falliva mai. L’orchestra ha offerto una delle sue prove, più emozionali, in particolare l’arpista Aida Kasmi, chiamata a quel solo dell’introduzione a “Regnava nel silenzio”, che si è caricata sulle spalle anche il secondo giovane cast, certamente maggiormente esuberante e facile a certe, giuste, ma rischiose, urgenze espressive, che ha visto in scena, le due altre Lucie, Ramona Tullumani e Ulpiana Aliaj, Artur Vera, nel ruolo di Lord Enrico, Solen Alla, Raimondo e Marina Kurti, Alisa. Regia firmata da Ada Gurra, con scene improntate ad un criterio di sobrietà, ideate compiacendosi, in effetti un po’ statici di rievocazioni di incisioni del tempo, senza sperimentalismi scenici né ambizioni filosofiche, tra chiaroscuro rembrandtiano, per uno spettacolo a metà strada fra tradizione e rinnovamento. Applausi scroscianti per tutti da un teatro tutto esaurito, per ogni replica, chiaro segno e risultato della svolta d’apertura, offerta al teatro dal sovrintendente Abigeila Voshtina, che guarda alla grande tradizione italiana ed europea.