Che cos’è la memoria. Parte prima: radici, identità e ricordi

29 gennaio 2025 | 17:42
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Che cos’è la memoria. Parte prima: radici, identità e ricordi

La memoria non è solo un archivio di ricordi personali, ma una costruzione culturale collettiva che plasma identità, appartenenza e narrazione storica. Nelle scienze sociali, lo studio della memoria consente di comprendere come le comunità costruiscono il loro passato e lo rendono significativo nel presente. Maurice Halbwachs, Paul Connerton, Joël Candau e altri studiosi hanno mostrato come la memoria collettiva sia un fenomeno dinamico, soggetto a rielaborazioni e selezioni strategiche. In psicologia, la memoria viene studiata nei suoi processi cognitivi, come la codifica, il consolidamento e il recupero delle informazioni, nonché nei suoi limiti e distorsioni, come le “flashbulb memories”, cioè quei ricordi vividi e duraturi di un evento sorprendente o scioccante che, tuttavia, sono tutt’altro che completi.
Dal punto di vista neurobiologico, la memoria coinvolge strutture cerebrali come l’ippocampo, essenziale per la formazione dei ricordi a lungo termine, e l’amigdala, che gioca un ruolo chiave nelle memorie emotive. La corteccia prefrontale è coinvolta nel recupero delle informazioni e nella loro rielaborazione, mentre i circuiti neuronali basati sulla plasticità sinaptica consentono il consolidamento e la rievocazione dei ricordi. In filosofia, la memoria è stata affrontata da pensatori come Henri Bergson, che la distingue tra memoria abituale e memoria pura, e da Paul Ricoeur, che esplora il rapporto tra memoria, storia e identità nel suo “La mémoire, l’histoire, l’oubli” (2000).
Un altro punto di vista, fondamentale per comprendere la memoria, proviene dalla mitologia greca, in particolare dalla figura di Mnemosine, figlia di Urano e Gea, personificazione della memoria e del potere di ricordare. Come madre delle Muse, Mnemosine incarna il legame indissolubile tra memoria e creatività, tra ricordo e produzione culturale. Sebbene non fosse una delle divinità più popolari nell’Antica Grecia, Mnemosine era oggetto di culto minore in diversi santuari, tra cui quello di Asclepio, dio della medicina. Qui, il culto di Mnemosine si intrecciava con pratiche di guarigione e di risveglio della memoria, suggerendo che il ricordo potesse essere una risorsa fondamentale per il benessere psicofisico. Intesa come “chiave della coscienza”, la memoria è una risorsa primordiale per ciò che chiamiamo identità: ci plasma e, a nostra volta, noi la modelliamo.
Spesso la memoria storica è inscritta e visibile in luoghi che disegnano una trama di biografie minime, talvolta impercettibili, dimenticate o addirittura cancellate, che però possono tornare a parlare. Questi luoghi, spesso considerati irrilevanti, favoriscono una riscoperta delle proprie radici e della propria esperienza. La memoria non è mai un processo lineare e ordinato, ma piuttosto un intreccio di oblio e ricordo. In questo senso, l’oblio rende possibile la memoria, per cui la memoria va interpretata come il prodotto di una continua tensione tra ciò che ricordiamo e ciò che dimentichiamo; un processo che rende possibile non solo la comprensione del passato, ma anche la costruzione del nostro presente e della nostra identità.
Tra memoria collettiva e identità
Nel suo “Quadri sociali della memoria” (1925), Maurice Halbwachs osserva che «un episodio passato è un insegnamento, e un personaggio scomparso, un incoraggiamento o un avvertimento». Lo studio della memoria, pertanto, non si limita a un esercizio di recupero del passato, ma diventa fondamentale per comprendere la continuità del mondo sociale, le sue modalità di riproduzione e i modi attraverso i quali i suoi cambiamenti vengono percepiti ed elaborati dalle persone. In effetti, la memoria si configura come un ponte tra il passato e il presente, dove ogni ricordo è influenzato e ristrutturato dai gruppi sociali con cui l’individuo interagisce. In tale ottica, la memoria collettiva diventa una risorsa fondamentale per il rafforzamento dell’identità e della coesione culturale, essenziale per mantenere la continuità di una comunità nel tempo.
Halbwachs indica, inoltre, che la memoria ha un’importanza particolare quando si affrontano eventi di grande discontinuità, come le catastrofi. Questi eventi, che includono guerre o calamità naturali, non solo rompono il tessuto sociale e individuale, ma spesso creano una “comunità del ricordo” che può segnare profondamente le generazioni. La catastrofe è un momento di rottura, che porta con sé traumi e cicatrici che possono essere trasmessi alle generazioni successive, sia attraverso il racconto diretto di chi ha vissuto l’evento, sia attraverso altre forme di memoria collettiva, come monumenti, targhe o tradizioni.
La memoria collettiva, tuttavia, non è limitata agli eventi recenti. Anche eventi che risalgono a secoli fa continuano a vivere nel ricordo collettivo e ad avere un impatto sugli individui e sulla società. Come sottolinea Clara Callari Galli nel suo manuale “Antropologia per insegnare” (2000), gli eventi del passato raccolti dalla memoria collettiva sono fondamentali per la definizione dell’identità di un gruppo: «tutti i nostri saperi, non solo la storia, devono essere considerati custodi della memoria intesa come parte del presente».
Sebbene la memoria di un evento lontano nel tempo non possa essere più basata sulla testimonianza diretta, essa continua a essere veicolata da forme mnemoniche indirette, che vanno dai monumenti e dalle lapidi, alla toponomastica, fino alle forme narrative come libri, fiabe e leggende. Questi strumenti di memoria diventano il mezzo attraverso il quale una comunità può continuare a relazionarsi con il proprio passato e a preservare le proprie radici, nonostante il tempo e le trasformazioni che il contesto sociale ed urbano subisce.
Con Joël Candau, che ha dedicato un’importante monografia sul rapporto tra “memoria e identità” (1998), possiamo affermare che «trasmettere una memoria e far vivere di conseguenza un’identità non consiste […] solamente nel tramandare un contenuto, ma anche un modo di essere al mondo». La memoria, dunque, non è solo un archivio di eventi passati, ma un processo dinamico che si intreccia con il modo in cui una comunità interpreta e dà forma al suo presente. In questo senso, la memoria non è solo un deposito di ricordi, ma un meccanismo attivo che plasma l’identità collettiva e i modi di essere, contribuendo alla coesione sociale e alla continuità del mondo sociale stesso.
Come sottolineato da Candau, la trasmissione della memoria non riguarda solo il contenuto, ma anche i modi di essere che si trasferiscono da una generazione all’altra. E sebbene questa riflessione si inserisca all’interno di un più ampio processo di socializzazione e di trasmissione culturale, è importante aggiungere che l’atto del ricordare ha una valenza fondamentale nel contesto delle catastrofi. Le calamità, siano esse naturali o storiche, interrompono la continuità del vissuto, creando discontinuità nei ricordi e nella percezione collettiva degli eventi.
L’indagine della memoria, dunque, è cruciale per comprendere non solo la continuità del mondo sociale, ma anche i cambiamenti che avvengono al suo interno, spesso come risposta a eventi traumatici che segnano profondamente le esperienze collettive. Così, lo studio della memoria delle catastrofi è una porta d’ingresso per esplorare come le comunità elaborano e reagiscono agli shock, e come queste esperienze vengono trasmesse alle generazioni future. In questo contesto, l’intervista ai testimoni oculari diventa un tassello fondamentale: ascoltare chi ha vissuto l’evento e raccogliere le loro narrazioni consente di cogliere la dimensione personale della memoria, che si intreccia con quella collettiva.
Tuttavia, occorre fare attenzione alla contestualizzazione temporale e sociale in cui la memoria viene trasmessa, soprattutto quando gli eventi sono lontani nel tempo. La memoria collettiva, per esempio, è capace di preservare tracce di eventi anche molto antichi, ma il suo contenuto muta nel tempo, adattandosi ai nuovi contesti e significati che le generazioni successive attribuiscono agli eventi storici.
Clara Callari Galli, nel sottolineare l’importanza della memoria collettiva per ogni gruppo umano, afferma che gli eventi del passato raccolti dalla memoria collettiva sono fondamentali per autodefinirsi. Non solo la storia, ma anche i saperi più diffusi, tutti i modi di sapere, sono da considerarsi custodi di una memoria che non è mai del tutto separata dal presente. La memoria, in questo senso, non è solo un’eredità del passato, ma anche un ingrediente essenziale per la costruzione dell’identità di un gruppo, che deve essere costantemente intrecciata con il presente.
Nel corso del tempo, però, le modalità del ricordo si evolvono: se in passato la memoria si trasmetteva principalmente attraverso racconti orali e l’esperienza diretta, oggi essa si veicola anche tramite monumenti, lapidi, targhe e persino attraverso cambiamenti nell’architettura e nell’urbanistica. Questi nuovi veicoli mnemonici, che fanno da ponte tra passato e presente, contribuiscono a mantenere vivo il ricordo di eventi significativi, altrimenti destinati a sbiadire nel tempo.
La memoria nei luoghi
La memoria non si trasmette solo attraverso racconti, bensì anche attraverso monumenti, lapidi, toponomastica, architettura e urbanistica. Questi elementi tangibili servono a cristallizzare il ricordo nel paesaggio, trasformandolo in un codice visivo e simbolico. Allo stesso tempo, fiabe, leggende e tradizioni orali rappresentano veicoli fondamentali della memoria immateriale. La memoria del territorio, infatti, non è solo un racconto del passato, ma si incarna nel paesaggio che ci circonda e che, nel corso del tempo, diventa un palinsesto ricco di segni e tracce lasciate da chi lo ha vissuto.
Tra conoscenze toponomastiche, riconoscibilità architettonica e ricordi personali legati ai luoghi, la relazione con il territorio si intreccia con la concretezza della città e la sua stratificazione storica. Il paesaggio, inteso come una sorta di “testo” in continuo divenire, apre a una casistica di emozioni infinite, legando insieme il mondo naturale, urbano e archeologico. Vivere in un paesaggio significa essere avvolti in un mezzo di comunicazione che consente uno scambio tra cultura ed ecosistema, tra noi e gli altri.
Questo “dialogo” si manifesta sia in una dimensione orizzontale, nel presente, tra gli individui che vivono il luogo, sia in una verticale, che attraversa il tempo, legando le generazioni passate, presenti e future attraverso un paesaggio che si tramanda come un diario collettivo.
Il paesaggio non è solo una successione di luoghi, ma un archivio che raccoglie le vicende e le visioni del mondo delle persone che vi hanno abitato. La memoria di questi luoghi si costruisce attraverso l’interazione tra l’oblio e la conservazione, come sottolineato da Tzvetan Todorov, ed è portatrice di una doppia dimensione spaziale: corporea e materiale da un lato, immateriale dall’altro. I “luoghi della memoria” sono tanto fisici – come cimiteri, cattedrali, campi di battaglia – quanto immateriali, veicolati da celebrazioni e rituali che li investono di un’aura del passato. La valenza simbolica di questi luoghi non è fissa, ma è continuamente costruita e reinterpretata dalla collettività, sono “ancoraggi identitari” che evocano il senso di appartenenza a un territorio. Questi luoghi, più che semplici “segnamemoria”, sono il fondamento di un’identità che si rinnova nel tempo e che si esprime attraverso la toponomastica, un linguaggio che rievoca storie e significati, e che diventa parte integrante della memoria collettiva. A volte sono molto piccoli e discreti, quasi invisibili, come le “pietre d’inciampo”, create dall’artista tedesco Gunter Demnig per depositare, nel tessuto urbanistico e sociale delle città europee, una memoria diffusa dei cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti.
Più ampiamente, il memoriale, inteso come luogo simbolico, è un manufatto architettonico che intende dare un’illusione di perennità, la quale è l’immagine che la comunità sogna soprattutto per sé, ma è anche una rappresentazione di condivisione su un evento che si ritiene debba essere ricordato, e intorno al quale si vuole che la comunità si rinsaldi. È, per fare qualche esempio, ciò che è accaduto in seguito alla crisi sanitaria del Covid-19, quando in varie zone italiane le amministrazioni locali hanno installato delle lapidi o altre costruzioni volte al ricordo, come recentemente anche a Sorrento, oppure gli abitanti hanno spontaneamente allestito dei luoghi simbolici, come il monumento di sassi di fiume a Casalpusterlengo, in provincia di Lodi. Spesso è stato scelto un simbolo molto particolare e discreto: l’albero, che in qualche caso è un intero frutteto o addirittura un bosco. Sono stati piantati molti “monumenti arborei”, che sono anche un’allegoria della vita e del radicamento, come a Pesaro e a Firenze dove sono stati inaugurati dei veri e propri “boschi della memoria” con centinaia di alberi.
In questo senso, il paesaggio non è solo un “memoryscape”, ma uno spazio in cui la memoria viene continuamente attivata e rinnovata, attraverso riti, celebrazioni, spettacoli e la stessa pratica della toponomastica. Ogni nome di strada, ogni monumento, ogni angolo di città diventa una traccia che alimenta il flusso della memoria e la relazione tra chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo.
Immagine di copertina: “Mémoire”, René Magritte, 1948; Fédération Wallonie-Bruxelles.