Che cos’è la memoria. Parte seconda: distorsioni, abusi e oblii
Tzvetan Todorov mette in guardia dagli “abusi della memoria” (1995), ovvero l’uso selettivo e manipolatorio del passato a fini politici o ideologici. Paolo Mieli, nel suo “La terapia dell’oblio” (2021), discute gli “eccessi della memoria” e la necessità di un equilibrio tra ricordo e oblio per evitare che il passato diventi uno strumento di divisione piuttosto che di comprensione. In questo contesto, Joël Candau approfondisce l’idea che la memoria possa essere trasformata in un potente strumento identitario, ma anche manipolato. Candau afferma che «ogni individuo morto può diventare un punto d’incontro memoriale e identitario», dando origine a una «prosopopea memoriale» che si esprime attraverso caratteristiche specifiche: «idealizzazione, personaggio modello del quale sono nascosti i difetti e magnificate le qualità, selezione dei tratti del carattere giudicati degni d’imitazione, “bioleggenda” post mortem che può fabbricare degli dei». Questa forma di “pantheonizzazione” postuma è un processo che spesso si verifica subito dopo la morte di una persona, come dimostrato nei necrologi o nelle orazioni funebri, e serve a costruire una memoria idealizzata, che può diventare uno strumento di coesione e di costruzione identitaria, ma anche di esclusione.
Il concetto di oblio emerge come un contraltare necessario alla memoria. Jean-Yves Lacoste descrive l’oblio come il «segreto inquietante del ricordo», un fenomeno che suscita allo stesso tempo paura e desiderio. Come hanno sostenuto grandi pensatori come Friedrich Nietzsche o Lucien Febvre, dimenticare è una necessità per i gruppi e le società che desiderano preservare la loro stabilità e coerenza senza essere schiacciati dal peso dei ricordi. L’oblio non deve essere visto solo come una mancanza della memoria, ma come un’operazione di selezione che consente a un individuo o a una comunità di mantenere un’identità coerente. Ad esempio, in “Se questo è un uomo” (1947) Primo Levi descrive come la memoria della sofferenza durante la Shoah potesse diventare un peso insostenibile, e come l’oblio, paradossalmente, fosse una forma di protezione. In un contesto di dolore estremo e deprivazione, l’incapacità di ricordare specifici dettagli della propria vita pre-bellica serviva a difendere la propria psiche. In alcune culture, l’oblio è persino visto come un segno di rispetto per i morti: tra i manouches, ad esempio, non si parla dei defunti perché si teme che i ricordi possano alterare la loro personalità originaria. In queste tradizioni, l’oblio diventa un atto di protezione, un modo per mantenere intatta la singolarità dell’individuo, evitando che la memoria collettiva distorca o cancelli la sua essenza.
Il diritto, il dovere e il bisogno di oblio si intrecciano quindi con la memoria come risorsa indispensabile per la costruzione dell’identità collettiva, ma anche come una forma di difesa psicologica, un “cantiere” che rende possibile la sopravvivenza di un gruppo senza che il peso del passato ne soffochi la capacità di guardare avanti.
Più nello specifico, le memorie traumatiche pongono interrogativi sulla loro stessa trasmissibilità. Se Primo Levi si preoccupava che la testimonianza dei sopravvissuti alla Shoah non fosse creduta, a causa della sua stessa incredibilità, Paul Connerton (“Come le società ricordano”, 1999) esplora come le memorie traumatiche vengano inscritte nei corpi e nei rituali, diventando parte dell’identità collettiva attraverso pratiche commemorative. Tuttavia, è stato dimostrato che, nonostante la certezza che le persone hanno dei propri ricordi, i dettagli di questi ricordi possono essere dimenticati nel tempo. In particolare, i ricordi flashbulb, che rappresentano un tipo di memoria autobiografica, si distinguono dagli altri tipi di memoria per la loro intensità emotiva, l’importanza personale e l’elemento di sorpresa. Alcuni ricercatori ritengono che questi ricordi possano essere più accurati e duraturi rispetto ad altri, grazie al loro carattere distintivo e significativo, o alla loro ripetuta rielaborazione. I ricordi flashbulb si caratterizzano per sei aspetti: il luogo in cui si trovavano, l’attività in corso, l’informatore, l’affetto proprio e altrui, e le conseguenze. In particolare, si può sostenere che l’elevato livello di sorpresa, di conseguenze e di eccitazione emotiva siano fattori determinanti per la formazione di tali ricordi.
Tuttavia, per la costruzione dell’identità, è essenziale anche il processo di selezione della memoria. La memoria, infatti, è tanto un atto di conservazione quanto di dimenticanza. La capacità di dimenticare è fondamentale per mantenere un equilibrio psicologico e per la costruzione di un’identità collettiva. Come affermato da alcuni studiosi, l’identità non si forma solo sulla base della memoria condivisa, ma anche sulle dimenticanze comuni. Questo processo di selezione della memoria, che include tanto il ricordo quanto l’oblio, è cruciale per l’individuo e per la società. La memoria, quindi, non è solo una forma di accumulazione del passato, ma anche un processo dinamico che può minacciare o rovinare il sentimento di identità, come nel caso dei ricordi traumatici. Le memorie di abusi o di tragedie collettive, come l’Olocausto, dimostrano come la memoria del trauma possa essere disturbante, al punto da minacciare la stabilità psicologica degli individui coinvolti. In questo gioco di memoria e oblio si fonda, quindi, l’identità, che è inevitabilmente legata sia ai ricordi sia alle dimenticanze.
Memoria e narrazione
Nella letteratura, nel teatro o, in generale nell’arte, la tensione tra memoria e oblio è molto presente. Ad esempio, Jorge Luis Borges esplora gli “eccessi di memoria” attraverso il personaggio di Ireneo Funes, condannato a ricordare ogni minimo dettaglio senza poter fare selezioni. In uno dei suoi racconti (“Funes el memorioso”, 1942), Funes, immobilizzato dopo un incidente, sviluppa una prodigiosa memoria che gli permette di percepire ogni sfumatura della realtà, senza filtri. La sua mente diventa un deposito infinito, una macchina che immagazzina tutto ciò che vede, senza lasciare spazio alla dimenticanza. Con il suo ricordo assoluto, Funes intraprende progetti tanto ambiziosi quanto inutili, come un vocabolario infinito per i numeri naturali e un catalogo mentale delle immagini, limitandolo a settantamila ricordi. Borges ci presenta Funes come un uomo intrappolato in una memoria totalizzante, dove l’impossibilità di selezionare ciò che è importante diventa un peso, una condanna. Questo disturbo, che rientra anche in studi medici e scientifici, solleva interrogativi sul rapporto tra l’essere umano e la macchina, suggerendo che la nostra umanità risiede proprio nella nostra capacità di dimenticare, di scegliere e di filtrare.
In numerosi suoi reportage dall’Europa centro-orientale, invece, Paolo Rumiz parla della necessità di «dare aria alla memoria», cioè di renderla un processo vitale, non un fardello che ci appesantisce. La memoria, per Rumiz, non deve essere un carico da sopportare, ma uno strumento capace di far emergere il patrimonio emozionale, di unire il passato al presente per favorire la comprensione e la connessione con ciò che siamo oggi. Non è un esercizio di nostalgia, ma un atto che ci permette di fare i conti con il nostro vissuto e di alimentare il nostro presente con ciò che abbiamo appreso.
Su un ulteriore piano, invece, il drammaturgo Ascanio Celestini sottolinea che la memoria non deve essere mai nostalgica o celebrativa, ma sempre «utile al presente». La memoria dei lavoratori che ha registrato nel corso degli anni, per esempio nell’opera “Fabbrica” dei primi anni Duemila, non è quella di eroi o santi, ma una memoria funzionale, che guarda al passato non per celebrare ma per affrontare le necessità quotidiane. «La memoria», afferma, «è uno strumento di lavoro… come un martello che andiamo a riprendere in cantina perché ci serve per attaccare un chiodo ora, adesso». È una memoria pratica, che ci serve per dare senso e risposte al nostro presente, per non dimenticare ciò che è necessario per agire nel mondo.
Così, mentre Borges ci mette in guardia sugli eccessi di una memoria senza filtri, Rumiz e Celestini ci invitano a pensare alla memoria come a un mezzo di connessione vitale, capace di nutrire il presente senza diventare un peso immobilizzante.
La memoria è un processo
La memoria è un processo di selezione e negoziazione, più che un semplice accumulo di ricordi. Essa si trova sempre in equilibrio tra ricordo e oblio, tra il bisogno di costruire identità collettive e il rischio di strumentalizzazioni. Come suggeriscono gli studiosi e gli artisti citati, ricordare non è mai un atto neutro, ma un’operazione culturale che risponde alle esigenze del presente. La memoria, infatti, è sempre punto di convergenza di ricordi plurali, tra cui vengono selezionati quelli più rispondenti all’immagine ideale o desiderata, possibile o auspicata, che si intende realizzare e trasmettere. La memoria è dunque condivisa solo in via ipotetica, perché, per quanto possa essere «radicata la certezza che le cose “stiano proprio così” come vengono proposte nel racconto e non possono essere diverse», dietro la sua facciata “monolitica” vi è sempre un incessante lavoro di riappropriazione e negoziazione dei ricordi. L’oscurità dell’oggi e l’incertezza del futuro, osserva Halbwachs, sono la ragione della continua “rilettura” degli eventi trascorsi: «la società tende a allontanare dalla sua memoria tutto ciò che potrebbe separare gli individui, allontanare i gruppi gli uni dagli altri e in ogni epoca rimaneggia i suoi ricordi in modo da metterli in accordo con le condizioni variabili del suo equilibrio». Come specifica Emmanuel Kattan (“Il dovere della memoria”, 2002), «le strategie dell’oblio non mirano fondamentalmente a proibire il ricordo, ma piuttosto a reinventare il passato».
La memoria riveste un’importanza cruciale per l’identità individuale e collettiva, ma è anche uno strumento delicato, potenzialmente sfruttato a fini di potere; quindi, soggetto a manipolazioni e rielaborazioni su cui non si può smettere di vegliare, fugando il rischio di ricordi alterati, di celebrazioni retoriche, di pietismi evenemenziali. L’attenzione alla storia e la conoscenza oggettiva dei fatti accaduti possono certamente contribuire a costruire un’identità più condivisa che sappia rinnovarsi anno dopo anno, ma deve anche fornire le chiavi di lettura di rapporti di potere che si riproducono nell’attualità. Abbiamo bisogno di memoria, appunto, non di nostalgia; necessitiamo di empatia, ma anche di distacco e lucidità.
La memoria è dunque condivisa solo in via ipotetica, perché dietro la sua facciata “monolitica” vi è sempre un incessante lavoro di riappropriazione e di negoziazione dei ricordi. Oggi, tuttavia, spesso la criticità vera è un’altra ed è a monte: il problema non è una memoria divisa o problematica, ma la mancanza di trasmissione da una generazione all’altra.
Immagine di copertina: “La persistència de la memòria”, Salvador Dalí, 1931; Museum of Modern Art, New York.