Il crepuscolo “semiserio” degli dèi

2 febbraio 2025 | 15:27
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Il crepuscolo “semiserio” degli dèi

L’omerica guerra delle guerre è riletta “favolona nera” è stata portata con successo a teatro da Il Quadrivio, ospite fino a quest’oggi del massimo salernitano

Di Alfonso Mauro

Nevrotica famigliona spicciolata su un assito simil-postapocalittico quasi da teatro dell’assurdo, gli olimpi sono e smascherati con ironia a tratti grottesca e con anti-eroica rassegnazione, e rimascherati nel gioco (di cui al titolo) che fanno dei personaggi omerici evocati dal felice ricorso a πϱόσωπα e sorta di burattini-armature “creature di scena”: causa di tutta la storia umana ma incolpabili di nulla (laddove gli uomini di nulla causa ma con la colpa di tutto), e la cui commediola apparentemente gretta, nonsense, e da reality TV è tragedia terrestre. E tuttavia ormai impotenti, malinconici, transitori, gretti e piccini, sbiaditi da millenni di declino cui rinvenire spiegazione se non soluzione, e la Guerra di Troia (rievocata a ludo della nottola che giunge a cose fatte) quale irrevocabile inizio della fine, nonché allegoria di temi sia universali che contemporanei. Se si inarca qualche sorriso — e lo si fa — esso è piuttosto dolceamaro da parodia del consesso di olimpi parodia di sé stessi. Uno su tutti, Zeus smemorato e senescente. Questa libera riscrittura, intelligente, autoironica, con pennellate di assurdismo e metateatralità, ha calzato il coturno del Massimo salernitano per mezzo de Il Quadrivio: Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Francesco Niccolini, Marcello Prayer, Antonella Attili; e con Haroun Fall, Jun Ichikawa, Liliana Massari, Francesco Meoni, Elena Nico; scene di Massimo Troncanetti; costumi di Francesco Esposito; luci di Davide Scognamiglio; musiche di Francesco Forni; creature e oggetti di scena di Alberto Favretto, Marta Montevecchi, Raquel Silva. Ma lo ha fatto con una comunicazione locale e generale che, salvo qualche eccezione, poco ha preventivamente al pubblico trasmesso dell’effettiva natura “pastiche” della tragicommedia. E quindi mesciamo anche noi il serio al faceto. Il cosiddetto “collasso della tarda Età del bronzo”, di cui l’Iliade è epica allegoria, è sia di per sé (accademicamente) che qui (teatralmente) vichiano monito del tramonto dell’Occidente; e gli dèi, dagli altari all’epica al teatro, riflesso o prodotto feuerbachiano dell’umanità che si scanna per corna o per geopolitica — “Noi non siamo che uno specchio” è la disarmata ammissione finale. “Fu allora che perdemmo il controllo sugli umani? Forse non lo abbiamo mai avuto”. Le premesse ci sono; la realizzazione rischia di non tenere tutto sotto controllo.Non semplice affidare a un testo coeso, coerente e succinto la ri-narrazione dell’epos per eccellenza e la ricomposizione dell’irta dicotomia tra registri drammaturgici e recitativi sopra e sotto le righe (dal serio al serioso al ridanciano al buffo n’est qu’un pas de proxémie); ma a scrittura, produzione, regia, e attori sembra ciò riuscire piuttosto felicemente, e anche grazie a gag-refrain, scelte iconografiche esteticamente valide, una loquela affatto modernissima accostata all’ovvia solleticazione delle memorie scolastiche di un pubblico interessato e intrattenuto, magari sollecitato al pensiero: l’attrazione nei confronti della ferocia che abbiamo tuttora dentro e per ammissione dello stesso Alessandro Boni ispirazione e scaturigine dell’applaudita tragicommedia. In galleria, dove la visione è allietata da commenti e qualche distrazione auspicabilmente fruttuosa, piaccia qualche considerazione antropologica sulla cesura “cultura della colpa” (guilt culture) sancita a legge e “cultura della vergogna” (shame culture) dove il peso sociale dell’individuo o di un gruppo dipende dalla τιμή (onore) e la δήμου φῆμις (voce di popolo) — e così di nuovo lo stesso Boni in alcune interviste rilasciate circa lo spettacolo, dove coscienza, colpa, dono-e-controdono ecc. si fanno chiave di critica sociale odierna vagamente e deliziosamente antisistema. La coscienza, emergente, di un Patroclo o di un Odisseo che spiazzano i numi è contrapposta all’auto-coscienza (autocommiserazione) di questi, che in un futuro loro o nostro non meglio identificato lamentano una perdita del potere (“A noi non crede più nessuno”, “dolorosa ci assale l’immortalità”) declinata col Ridicolo piuttosto salace e il Patetico piuttosto pensoso che confondono il tempo della guerra poemica con quello presentissimo delle miserie politiche (“Eva, stai serena!”) e dei conflitti più efferati e controversi.
Interessante, pur nei suoi limiti e in questo alveo, l’operazione di recare a teatro il mito e il tomo, sviscerandone un “Bignami”, una “favolona nera” poliedrica e plurigenere che riattualizza il “gioco degli dèi”/guerra-e-peste in un altrettanto guerrafondaio e post-pandemico gioco degli oligarchi dove la ferocia è quantitativamente maggiore ma qualitativamente più farsesca. Ma nel “poema della forza” (Simone Weil) pure serpeggia un anelito di pace, e nell’annientamento degli olimpi e degli eroi il mondo può forse conseguire sua palingenetica rivoluzione (Wagner?). L’acribia della costruzione drammaturgica sta appunto nella denuncia mascherata dalla larva dell’immaginifico e del giocoso, supportata da una potente e simbolica dimensione visiva scenografico-costumistica. Men felice qualche momento di balletto in scena e qualche gigioneggiamento.È immutabile dono della contaminazione straniare (quando non perplimere) il pubblico; e se la polisemia la più sciolta è retta dalla valentia del mestierante, è grato compito circoscrivere lo snocciolamento dell’opinione spettatrice a quanto in nostro pro sappia un “Cantami, o Diva…” ancora prodursi e riprodursi. Magari attraverso una misurata dissacrazione del sacrum classici, una leggerezza quasi comica dove il giuoco della guerra è tutta scorze di cavalieri inesistenti e dèi dimezzati (buona intuizione l’Ares ragazzone autistico) — con dolceamara allegoria del presente, dall’ “avvertimento” al “sentimento del contrario”. Ed è infatti umoristica la chiusa, nascente da una più ponderata riflessione che sa di compatimento. È così che, sulla spiaggia del mondo ove si erano arenati tra capricci e ripicche, gli dèi orano un Götterdämmerung postmoderno, smesse le maschere e recisi i fili dei vari Sarpedonte, Elena, Achille, Paride, Andromaca, Agamennone, Ettore, e riunificatisi con e nel pubblico che li ha creati a propria immagine e somiglianza.