Il “primo contatto” e il riflesso dell’altro – Seconda parte: prospettive antropologiche, filosofiche e psicologiche sull’incontro con l’alterità

10 marzo 2025 | 17:54
Share0
Il “primo contatto” e il riflesso dell’altro – Seconda parte: prospettive antropologiche, filosofiche e psicologiche sull’incontro con l’alterità

Se la prima parte di questa riflessione ha esplorato il primo contatto nella sua dimensione storica – dalle spedizioni europee all’incontro con popoli indigeni, fino ai casi più recenti di popolazioni isolate – questa seconda parte si concentra su un altro livello dell’esperienza dell’alterità: quello teorico. Al di là delle cronache e degli eventi documentati, cosa significa realmente incontrare l’altro? Come cambia la nostra percezione del mondo quando ci troviamo di fronte a qualcosa di radicalmente nuovo?
L’antropologia ha mostrato che ogni primo contatto è segnato da un paradosso epistemologico: da un lato, l’esploratore o l’etnografo cerca di comprendere l’altro, ma nel farlo lo trasforma inevitabilmente. La filosofia, dal canto suo, ha riflettuto sulle implicazioni etiche e cognitive dell’incontro con l’alterità, interrogandosi su come la conoscenza si ridefinisca attraverso lo sguardo altrui. Infine, la psicologia ha analizzato i meccanismi emotivi e cognitivi che entrano in gioco nel primo contatto, mostrando come esso possa generare paura, fascinazione o trasformazione interiore.
In questa seconda parte, ci addentriamo dunque nelle profondità del concetto di primo contatto, spaziando tra antropologia, filosofia e psicologia, per comprendere non solo cosa accade quando due civiltà si incontrano, ma anche cosa avviene dentro di noi ogni volta che ci confrontiamo con una realtà che sfida le nostre certezze.

Il paradosso etnografico: osservare, partecipare, cambiare
L’etnografia, cuore metodologico dell’antropologia culturale, si fonda sull’incontro diretto tra il ricercatore e la comunità studiata. Questo incontro, però, non è mai neutrale né privo di contraddizioni. Il cosiddetto “dilemma etnografico” emerge proprio dal fatto che il ricercatore si trova simultaneamente in due posizioni contrapposte: quella di osservatore esterno, che cerca di documentare la cultura altrui in modo obiettivo, e quella di partecipante, che inevitabilmente interagisce con la comunità e ne modifica, anche involontariamente, le dinamiche.
L’incontro etnografico è dunque segnato da un paradosso epistemologico: il ricercatore aspira a comprendere e descrivere una cultura dall’interno, ma il solo atto della sua presenza la trasforma.
L’antropologo, entrando in relazione con il contesto studiato, non è mai un testimone invisibile, bensì un agente attivo che influenza la realtà che cerca di analizzare. Questa consapevolezza ha portato a una profonda riflessione all’interno dell’antropologia, che ha progressivamente abbandonato l’illusione di una completa oggettività a favore di una prospettiva più critica e riflessiva. In questa direzione si colloca anche il pensiero di Ernesto de Martino (1948), il quale ha sottolineato come l’antropologo non possa mai essere neutrale, ma debba confrontarsi con il proprio orizzonte culturale e con il rischio di una perdita della presenza. De Martino ha evidenziato che l’incontro con l’altro comporta una crisi della propria soggettività e del proprio sistema di valori, un processo che può portare a una ristrutturazione del sé e della propria comprensione del mondo.
Pierre Bourdieu (2003) descrive un «sdoppiamento della coscienza» che risulta di difficile attuazione per il ricercatore, il quale si trova simultaneamente nella doppia posizione di «colui che agisce e colui che si guarda agire» (p. 43). Questo dilemma non è solo di natura metodologica, ma anche profondamente umana. Clifford Geertz (1988), infatti, ha sottolineato come l’interpretazione culturale sia inevitabilmente un processo di mediazione, in cui l’antropologo deve decifrare significati profondi senza imporre le proprie categorie di pensiero. Più radicalmente, Johannes Fabian (2022) ha criticato l’illusione di un’oggettività assoluta nello studio dell’altro, mostrando come ogni primo contatto sia intriso di relazioni di potere. La conoscenza etnografica non è mai neutra: è sempre influenzata dalle dinamiche storiche, politiche e sociali che regolano il rapporto tra chi osserva e chi è osservato. Ernesto de Martino ha definito questa condizione come il «paradosso dell’incontro etnografico», un nodo epistemologico che potrebbe apparire insormontabile, poiché implica che il ricercatore non possa mai essere un osservatore del tutto imparziale.
Eppure, de Martino invita a non cedere allo scetticismo. La soluzione che propone è l’«etnocentrismo critico», un approccio che riconosce come lo sguardo dell’antropologo sia inevitabilmente plasmato dalla propria cultura di appartenenza. Piuttosto che negare questa condizione, il ricercatore dovrebbe renderla esplicita, riconoscendo la storicità delle proprie categorie interpretative e integrandole consapevolmente nel processo di comprensione dell’altro. In questo modo, l’antropologo non rinuncia alla propria prospettiva, ma la assume in modo riflessivo, trasformandola in uno strumento di conoscenza più consapevole e trasparente.

Evidentemente, da un lato il ricercatore deve instaurare un rapporto di fiducia con la comunità, spesso attraverso l’osservazione partecipante, un metodo che richiede coinvolgimento e immersione nelle pratiche locali. Ma dall’altro, deve mantenere una distanza analitica, evitando di diventare parte integrante della società studiata al punto da perdere la capacità di interpretarla criticamente. Il rischio, in questo senso, è duplice: un’eccessiva vicinanza può portare all’identificazione con il gruppo, compromettendo l’obiettività; un’eccessiva distanza può invece impedire una comprensione autentica dell’esperienza vissuta dai soggetti studiati.
Inoltre, un altro nodo cruciale del dilemma etnografico riguarda il problema della rappresentazione.
L’etnografo scrive sempre a partire dalla propria prospettiva culturale, e la sua narrazione non è mai neutra. Edward Said, con la sua critica all’orientalismo (2002), ha mostrato come la rappresentazione dell’altro sia spesso costruita sulla base di preconcetti e rapporti di potere.
L’etnografia, dunque, non può mai essere una semplice descrizione della realtà, ma è sempre il risultato di una mediazione tra lo sguardo del ricercatore e il contesto studiato.
L’antropologia postmoderna ha cercato di affrontare il dilemma etnografico mettendo in discussione il ruolo del ricercatore e introducendo pratiche di scrittura polifonica, in cui le voci dei soggetti studiati emergono in maniera più autonoma. Tuttavia, questo non elimina del tutto il problema dell’asimmetria di potere tra chi osserva e chi è osservato, né risolve il dilemma dell’incontro etnografico: come restituire fedelmente l’esperienza di un’altra cultura senza imporre su di essa il proprio filtro interpretativo? In realtà non c’è una soluzione univoca, perché ogni ricercatore deve confrontarsi sempre con questo tipo di tensione. Quel che abbiamo compreso è che non è importante eliminarla, ma riconoscerla, accettarla e integrarla nel proprio lavoro, adottando un approccio critico e consapevole che tenga conto delle implicazioni etiche ed epistemologiche dell’incontro con l’altro.

I Culti del Cargo: l’illusione del dono e il fardello dell’attesa
Come abbiamo visto, il primo contatto non è mai un semplice evento di scambio e riconoscimento reciproco, ma spesso genera aspettative, fraintendimenti e profondi squilibri. L’arrivo di una civiltà tecnologicamente più avanzata in un contesto culturale che non possiede gli strumenti per decifrare la provenienza e la natura di ciò che vede può portare alla rielaborazione simbolica di questo incontro, trasformandolo in un mito di attesa e speranza. Un esempio emblematico di questa dinamica è rappresentato dai “culti del cargo”, fenomeni religiosi e politici che si svilupparono in Melanesia a partire dal XIX secolo e che divennero particolarmente diffusi dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Studiati da molti antropologi (soprattutto: Worsley, 1957; Lawrence, 1964; Sahlins, 1992; per una sintesi: Lindstrom, 2023), i culti del cargo nacquero come risposta alla percezione di un’ingiustizia cosmica: l’idea che i beni materiali e le tecnologie possedute dai colonizzatori non fossero frutto del loro lavoro o del loro sapere, ma che appartenessero originariamente agli indigeni e fossero stati loro sottratti per errore o malizia. In un sistema di valori in cui il potere e il prestigio si misuravano attraverso il dono e la ridistribuzione delle ricchezze, il fatto che gli occidentali ricevessero un flusso apparentemente infinito di beni attraverso navi e aerei senza partecipare agli usuali circuiti di scambio appariva inspiegabile. La soluzione, in molte narrazioni locali, fu ricondurre la loro ricchezza a un’origine spirituale: il cargo sarebbe stato inviato dagli antenati o da divinità, e il ritorno a una condotta morale pura avrebbe permesso ai popoli indigeni di reclamare ciò che spettava loro.
L’elemento più affascinante dei culti del cargo è che l’incontro con l’alterità coloniale non portò a una semplice imitazione passiva o a un’accettazione del dominio europeo, ma a una riappropriazione simbolica e rituale dei processi osservati. Gli indigeni costruirono finte piste di atterraggio, torri di controllo e riproduzioni di radio in legno, sperando che il cargo tornasse a loro se solo avessero replicato i gesti e le pratiche dei soldati e dei commercianti stranieri. L’idea di simpatia e magia imitativa, concetti studiati dall’antropologia a partire da James Frazer, si manifestava in un contesto in cui l’alterità tecnologica non veniva vista come un prodotto della tecnica e della scienza, ma come il risultato di un ordine occulto e trascendente.
Questi culti non erano, tuttavia, meri fraintendimenti della modernità, come spesso sono stati liquidati in un’ottica eurocentrica. La loro origine non si può ridurre a una presunta “ingenuità” di fronte alla tecnologia occidentale, come suggerito da alcuni resoconti coloniali che li dipingevano con superiorità paternalistica. Piuttosto, i culti del cargo vanno compresi come un’espressione di resistenza culturale e rielaborazione dell’incontro con il potere coloniale. Essi rappresentano una strategia per negoziare il dominio straniero e per immaginare un futuro alternativo, in cui il cargo diventa la metafora della giustizia e della ridistribuzione della ricchezza. In alcuni casi, questi movimenti si trasformarono in veri e propri movimenti politici e indipendentisti, ponendosi come alternativa al controllo europeo e tentando di riaffermare la centralità della cultura indigena.
L’ambivalenza del primo contatto è quindi evidente nei culti del cargo: da un lato, esprimono una fascinazione per l’alterità e un desiderio di appropriazione della modernità; dall’altro, manifestano una frustrazione per l’impossibilità di accedere alle risorse e al potere che gli occidentali sembrano possedere per diritto naturale. Questo paradosso si è ripresentato in molti contesti storici: ogni volta che una civiltà è stata esposta a un potere esterno che ne ha sovvertito le dinamiche interne senza offrire un reale accesso ai meccanismi di controllo, ha trovato modi per tradurre questa esperienza in miti, speranze e strategie di resistenza.
Se il primo contatto è sempre un’esperienza di trasformazione, lo è anche nella sua dimensione di attesa e disillusione. Il cargo che non arriva diventa il simbolo di un’alterità inafferrabile, di un potere che si sottrae e che non può essere semplicemente imitato, ma deve essere decifrato e risignificato. Questa lezione antropologica si estende ben oltre Melanesia e colonialismo: la stessa tensione tra aspettativa e realtà si ritrova oggi in molte narrazioni del progresso tecnologico, della globalizzazione e persino nelle teorie contemporanee sugli UFO, in cui l’attesa di un contatto con civiltà extraterrestri assume spesso una connotazione quasi religiosa, un’eco moderna delle speranze legate al cargo.
Il primo contatto, dunque, non è solo un momento di incontro tra due civiltà, ma una questione di prospettiva e di potere. Ciò che viene visto come una rivoluzione può essere vissuto come una sottrazione; ciò che appare come modernità per alcuni può essere percepito come ingiustizia per altri. Il cargo atteso e mai arrivato è una metafora della disuguaglianza e della promessa mancata che ogni primo contatto porta con sé.

L’incontro con l’alterità: una sfida filosofica alla conoscenza e all’identità
Che l’incontro con l’alterità abbia sempre costituito un momento di crisi e di ridefinizione della conoscenza è noto anche in filosofia, dove il “primo contatto” – che sia con una civiltà sconosciuta, con un altro modo di pensare o con una realtà completamente nuova – è un’esperienza che sfida le nostre categorie epistemologiche, etiche e ontologiche. La filosofia ha a lungo riflettuto su cosa significhi realmente incontrare l’altro, interrogandosi sulle conseguenze cognitive ed esistenziali di questo confronto.
Dal punto di vista epistemologico, il primo contatto rappresenta una rottura nel modo in cui interpretiamo la realtà. Thomas Kuhn (2009) ha mostrato come la scienza avanzi attraverso “cambiamenti di paradigma”, momenti in cui una nuova teoria rivoluziona il quadro concettuale preesistente. Un primo contatto, in questo senso, può essere visto come un evento che rende inadeguati gli strumenti conoscitivi fino ad allora utilizzati, costringendo l’individuo o la società a riorganizzare il proprio sapere. Come abbiamo visto nella prima parte, quando gli europei incontrarono popolazioni indigene tra il XV e il XVIII secolo, si trovarono di fronte a modi di vivere e concepire il mondo che sfidavano le loro categorie interpretative. La difficoltà di comprendere queste società spinse gli occidentali a incasellarle in modelli semplificati, come il mito del “buon selvaggio” o dell’“essere primitivo”, dimostrando quanto il primo contatto possa rivelare più sulle strutture cognitive di chi osserva che su chi viene osservato.
Dal punto di vista etico, il primo contatto solleva questioni fondamentali su come relazionarsi all’alterità. Emmanuel Lévinas (1999) ha sottolineato che l’incontro con l’altro non può essere ridotto a un semplice processo conoscitivo, ma è prima di tutto un evento etico. Il volto dell’altro ci interpella e ci impone di rispondere, senza cercare di assimilarlo o ridurlo a ciò che già conosciamo.
Questa prospettiva suggerisce che ogni primo contatto dovrebbe essere affrontato con apertura e responsabilità, piuttosto che con il desiderio di controllo o di dominio. Hans Jonas (2002), con il suo principio di responsabilità, ha evidenziato come il progresso umano implichi obblighi etici verso l’alterità, compresa quella non umana. In un ipotetico primo contatto con una civiltà extraterrestre, ci troveremmo di fronte al dilemma se interferire o meno nel loro sviluppo, un problema già presente nell’antropologia quando si parla di popoli isolati come i Sentinelesi.
Sul piano ontologico, il primo contatto costringe a ridefinire l’identità di chi lo vive. Jean-Paul Sartre (1976) ha mostrato come lo sguardo dell’altro ci riveli a noi stessi in un modo inedito, trasformandoci in oggetti della sua percezione. Questo meccanismo è centrale nei racconti di primo contatto: l’incontro con l’alterità innesca una presa di coscienza della propria natura, poiché essere osservati da un altro che non condivide il nostro stesso sistema di riferimento destabilizza l’identità e impone il confronto con la possibilità di essere radicalmente diversi da come ci percepiamo.
Questa consapevolezza emerge sia nei resoconti storici di esplorazione e colonizzazione, sia nelle speculazioni fantascientifiche sul contatto con civiltà extraterrestri.
Ma il primo contatto può essere letto anche attraverso il concetto di sublime, ossia l’esperienza che si verifica quando l’essere umano si confronta con qualcosa di così vasto e incommensurabile da superare la sua capacità di comprensione. Immanuel Kant (1989) distingue tra il bello, che suscita un piacere armonico, e il sublime, che genera una sensazione mista di attrazione e terrore di fronte all’infinito o alla potenza della natura. Edmund Burke (2024), invece, considera il sublime come grandezza, potenza e pericolo: un’emozione legata alla paura controllata, che provoca stupore e sgomento.
Ne consegue che l’incontro con una realtà radicalmente altra può suscitare sia meraviglia che terrore, rivelando i limiti della nostra capacità di assimilare il nuovo. Questo spiega perché molte narrazioni di primo contatto oscillino tra la fascinazione e il timore, tra il desiderio di conoscere e la paura dell’ignoto. Ogni esperienza di primo contatto interroga il nostro modo di conoscere, il nostro senso etico, la nostra identità e la nostra capacità di affrontare l’incomprensibile. Non è solo un incontro con l’altro, ma anche un confronto con noi stessi, con i limiti della nostra comprensione e con la necessità di ridefinire continuamente il nostro posto nel mondo.

Il primo contatto nella mente umana: emozioni, percezioni e trasformazioni
Come abbiamo visto in tanti esempi citati, storici e teorici, l’incontro con l’alterità rappresenta una delle esperienze più profonde e destabilizzanti per l’essere umano, sia perché può mettere in crisi, sia perché può avviare un rinnovamento. In psicologia, il concetto di “primo contatto” non si limita agli incontri tra civiltà diverse, ma si estende a ogni esperienza che ci mette di fronte a qualcosa di sconosciuto e imprevedibile. L’impatto di questi incontri può avere conseguenze durature sulla percezione di sé e sugli schemi mentali con cui interpretiamo il mondo. Un concetto chiave in questo contesto è l’imprinting, descritto inizialmente da Konrad Lorenz (2007) negli studi sull’apprendimento precoce. Con questo termine ci si riferisce alla tendenza degli individui, specialmente nei primi anni di vita, a fissare schemi di riconoscimento e risposta sulla base delle loro prime esperienze. Applicato alla psicologia del primo contatto, questo meccanismo suggerisce che le prime interazioni con l’alterità possano condizionare in modo duraturo la percezione e le reazioni emotive nei confronti del diverso.
Da un punto di vista cognitivo, il primo contatto attiva meccanismi di categorizzazione e confronto, nel senso che la mente umana tende a incasellare rapidamente nuove informazioni per ridurre l’incertezza, creando modelli semplificati della realtà, come ha mostrato Daniel Kahneman (2012).
Questo fenomeno si manifesta chiaramente nei primi incontri tra culture diverse, in cui l’altro viene spesso descritto in termini estremi, oscillando tra la fascinazione e il sospetto. Gli studi sulla psicologia sociale hanno evidenziato come il primo contatto con l’alterità possa rinforzare stereotipi e bias cognitivi, ma anche generare processi di de-costruzione delle proprie certezze.
Sul piano emotivo, il primo contatto può scatenare un’ampia gamma di risposte, dalla meraviglia alla paura. Ne è stato pioniere Sigmund Freud con il concetto di “perturbante”, secondo cui l’incontro con qualcosa di familiare ma al contempo estraneo può generare ansia e disorientamento.
Questa reazione si osserva nelle dinamiche di shock culturale o in seguito a un disastro, in cui l’individuo, esposto a un contesto radicalmente nuovo, sperimenta un senso di spaesamento e frustrazione dovuto alla perdita dei propri punti di riferimento abituali. Tuttavia, se adeguatamente elaborato, quel “primo contatto” può diventare un’esperienza di crescita, favorendo l’apertura mentale e l’empatia.
Questo significa che un aspetto fondamentale del primo contatto è la gestione dello stress e della risposta adattativa. Walter Cannon (1932) lo ha spiegato con la teoria del “fight or flight”, secondo cui il sistema nervoso autonomo reagisce alle situazioni di novità e potenziale pericolo portando l’individuo a rispondere con un atteggiamento difensivo o esplorativo. Si tratta di una dinamica ben documentata nelle reazioni psicologiche ai grandi cambiamenti, dai fenomeni migratori agli incontri interculturali, fino ai traumi da catastrofe: l’adattamento al nuovo dipende dalla capacità di tollerare l’ambiguità e di sviluppare strategie di coping efficaci.
L’impatto psicologico di questa situazione è stato studiato molto anche nella psicologia dello sviluppo, dove si è osservato come i momenti iniziali di un incontro riescano a plasmare la memoria: le prime esperienze di interazione con qualcosa di nuovo modellano le aspettative future e il modo in cui si affrontano situazioni inedite, come è evidente soprattutto nei bambini, il cui primo contatto con un ambiente sconosciuto può influenzare il loro sviluppo socio-emotivo e la loro capacità di adattamento. Evidentemente, nel contesto delle relazioni interpersonali il primo contatto ha un ruolo cruciale nella costruzione della fiducia e nell’instaurazione dei legami sociali, ad esempio sulla capacità di costruire rapporti sicuri e significativi, cioè sull’attaccamento; una caratteristica che torna anche nella vita adulta, quando si riproducono modelli relazionali interiorizzati nel corso dello sviluppo.
Dal punto di vista degli studi psicologici, dunque, il primo contatto è un’esperienza complessa, che mette alla prova i meccanismi cognitivi, emotivi e sociali dell’individuo. Può generare ansia e chiusura, ma può offrire anche l’opportunità di ampliare i propri orizzonti e sviluppare nuove competenze adattative. Ciò significa che l’incontro con l’alterità non è solo una sfida, ma anche una possibilità di trasformazione e arricchimento personale.

Dal mito alla fantascienza: il primo contatto nell’immaginario culturale
Il primo contatto ci affascina, ci incuriosisce, ci stimola la fantasia. L’idea di un incontro con l’alterità – può essere una civiltà sconosciuta, ma anche un’intelligenza aliena o una forma di vita radicalmente diversa – è così potente da aver trovato espressione in ogni forma d’arte, dalla letteratura al cinema. Lo riproduciamo continuamente, perché racchiude in sé le nostre più profonde paure e speranze: il desiderio di esplorare l’ignoto, ma anche il timore di ciò che non possiamo comprendere.
La letteratura ha esplorato il tema del primo contatto in innumerevoli modi, spesso riflettendo sui timori e sulle attese dell’epoca in cui è stata scritta. Le cronache delle grandi esplorazioni europee hanno ispirato romanzi come “Robinson Crusoe” di Daniel Defoe (1719), che tematizza l’incontro tra l’uomo occidentale e l’indigeno, trasformandolo in una narrazione di dominio e civilizzazione.
In “I viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift (1726), l’incontro con civiltà fantastiche serve per criticare i costumi e le credenze europee, ribaltando la narrazione coloniale. Nel XX secolo, il tema del primo contatto è diventato centrale nella fantascienza, con romanzi come “La guerra dei mondi” di H.G. Wells (1898), in cui l’incontro con gli alieni è descritto attraverso il prisma del terrore coloniale, o “Contact” di Carl Sagan (1985), che esplora il primo contatto come una questione scientifica e spirituale.
Anche il cinema ha spesso rappresentato il primo contatto in modi estremamente diversi, riflettendo le ansie e le speranze della società contemporanea. Film come “Independence Day” (di Roland Emmerich, 1996) e “La guerra dei mondi” (di Byron Haskin, 1953; di Steven Spielberg, 2005) raffigurano il primo contatto come una minaccia esistenziale, in cui l’umanità è costretta a difendersi da un’invasione aliena distruttiva. Al contrario, in “Arrival” (di Denis Villeneuve, 2016), il contatto con gli alieni è un evento che sfida la nostra percezione della realtà, ponendo interrogativi sul linguaggio e sul tempo. Il film si basa sul racconto “Story of Your Life” di Ted Chiang (1998) e affronta il tema della comunicazione con una specie radicalmente diversa. La protagonista, una linguista, scopre che la struttura del linguaggio degli alieni altera la percezione del tempo, portando alla consapevolezza che il modo in cui pensiamo e comunichiamo modella la nostra esperienza della realtà. L’opera suggerisce che il primo contatto non è solo un evento scientifico, ma una trasformazione profonda del modo in cui vediamo il mondo. In “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick (1968), il primo contatto con un’intelligenza aliena viene presentato come un’esperienza trascendentale, un passaggio evolutivo per l’umanità. Un altro film fondamentale in questo contesto è “E.T. l’extra-terrestre” di Steven Spielberg (1982), in cui il primo contatto è raccontato attraverso gli occhi di un bambino. A differenza delle narrazioni precedenti, che spesso dipingevano gli alieni come minacce o esseri enigmatici, E.T. presenta l’extraterrestre come un essere buono, vulnerabile e compassionevole. Questo cambiamento ha influenzato profondamente il modo in cui il cinema ha trattato l’incontro con l’alterità, dimostrando che l’empatia e la connessione emotiva possono essere elementi centrali nel primo contatto tra specie differenti.

Oltre il primo contatto: il riflesso dell’altro nel nostro sguardo
In conclusione, il primo contatto va considerata un’esperienza che attraversa i confini della storia, della psicologia e della cultura, ossia un momento di crisi e di rivelazione in cui l’ignoto si manifesta, sfidando le nostre certezze. Come abbiamo visto, da un lato suscita paura e resistenza, perché ci costringe a confrontarci con ciò che è radicalmente altro; tuttavia, dall’altro apre nuove prospettive, offrendo la possibilità di conoscere, trasformarsi e ridefinirsi.
Che si tratti di un incontro tra popoli, di una rivoluzione scientifica o di un contatto con forme di vita extraterrestri, il primo contatto continua a essere una delle narrazioni più potenti dell’umanità.
Ogni epoca ha proiettato in esso le proprie ansie e speranze: dal terrore coloniale alla curiosità dell’esplorazione, dall’idea della conquista a quella del dialogo interculturale. Se in passato il primo contatto ha portato alla dominazione e allo scontro, ha anche generato ibridazioni culturali, scoperte e nuove forme di sapere.
Ancora oggi, alcune popolazioni indigene dell’Amazzonia e della Papua Nuova Guinea vivono in isolamento, e le politiche di protezione cercano di evitare gli errori del passato. Ma il primo contatto non è solo un evento storico o antropologico: è una condizione continua dell’esistenza umana. Ogni volta che incontriamo una cultura, un pensiero o una conoscenza diversa, viviamo un nuovo primo contatto, un istante di sospensione in cui l’alterità ci interpella. E in quell’istante, il mondo cambia, e noi con esso.
——–
Bibliografia (della prima e della seconda parte)
• Pierre Bourdieu, 2003, “L’objectivation participante”, in «Actes de la recherche en sciences sociales», numero monografico “Regards croisés sur l’anthropologie de Pierre Bourdieu”, vol. 150, dicembre 2003.
• Edmund Burke, 2024, “Indagine filosofica sull’origine delle nostre idee del sublime e del bello” [1757], Santarcangelo di Romagna, Edizioni Theoria.
• Walter Cannon, 1932, “The Wisdom of the Body”, New York, W.W. Norton and Company.
• Cristoforo Colombo, 1992, “Diario del primo viaggio”, Torino, Einaudi.
• James Cook, 1768-1771, “Journal of H.M.S. Endeavour” (disponibile sul website della National Library of Australia: https://nla.gov.au/nla.obj-228958440/view).
• Hernán Cortés, 2016, “Cartas de Relacion”, Barcelona, Castalia Ediciones.
• Gaspar de Carvajal, 1542 “Descubrimiento del río de las Amazonas por el Capitán Francisco de Orellana” (disponibile online: https://blogs.elpais.com/papeles-perdidos/pdf/gaspardecarvajal.pdf).
• Ernesto de Martino, 1948, “Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo”, Torino, Einaudi.
• Johannes Fabian, 2022, “Time and the Other: How Anthropology Makes Its Object”, New York, Columbia University Press.
• Clifford Geertz, 1988, “Antropologia interpretativa”, Bologna, il Mulino.
• Hans Jonas, 2002, “Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica”, Torino, Einaudi.
• Daniel Kahneman, 2012, “Pensieri lenti e veloci”, Milano, Mondadori.
• Immanuel Kant, 1989, “Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime” [1764], Milano, Rizzoli.
• Thomas S. Kuhn, 2009, “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, Torino, Einaudi.
• Jacques Lafaye, 1974, “Quetzalcoatl et Guadalupe. La formation de la conscience nationale au Mexique (1531-1813), Parigi, Gallimard.
• Peter Lawrence, 1964, “Road Belong Cargo: A Study of the Cargo Movement in the Southern Madang District, New Guinea”, Manchester, Manchester University Press (disponibile online: https://archive.org/details/roadbelongcargos00lawr_0).
Emmanuel Lévinas, 1999, “Il pensiero dell’altro”, Roma, Edizioni Lavoro.
• Lamont Lindstrom, 2023, “Cargo cults”, in «The Open Encyclopedia of Anthropology» (a cura di
Felix Stein): https://www.anthroencyclopedia.com/printpdf/302
• Konrad Lorenz, 2007, “Io sono qui, tu dove sei? Etologia dell’oca selvatica”, Milano, Mondadori.
• Gananath Obeyesekere, 1992 “The Apotheosis of Captain Cook. European Mythmaking in the Pacific”, Princeton, Princeton University Press.
• Antonio Pigafetta, 1524, “Relazione del primo viaggio intorno al mondo” (versione del 1894 disponibile online: https://archive.org/details/IlPrimoViaggioIntornoAlGloboDiAnt).
• Marshall Sahlins, 1992, “Storie d’altri”, Napoli, Guida Editori.
• Marshall Sahlins, 1995, “How ‘Natives’ Think. About Captain Cook, For Example”, Chicago, University of Chicago Press.
• Edward Said, 2002, “Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente”, Milano, Feltrinelli.
• Jean-Paul Sartre, 1976, “L’Être et le Néant : Essai d’ontologie phénoménologique”, Parigi, Gallimard.
• Sudipto Sengupta, 2018, “Madhumala Chattopadhyay, the woman who made the Sentinelese put their arrows down”, in «The Print», 29 novembre 2018: https://theprint.in/opinion/madhumala- chattopadhyay-the-woman-who-made-the-sentinelese-put-their-arrows-down/156330/
• Tzvetan Todorov, 1982, “La Conquête de l’Amérique: la question de l’autre”, Parigi, Le Seuil.
• Peter Worsley, 1957, “The Trumpet Shall Sound; a Study of ‘Cargo’ Cults in Melanesia”, Londra, Macgibbon & Kee Publisher (disponibile online: https://archive.org/details/trumpetshallsoun0000pete).

——–

Immagine di copertina: Particolare della locandina del film “E.T. – L’extraterrestre”, di Steven Spielberg, 1982.

Parole-chiave: Culti del cargo, Paradosso etnografico, Filosofia, Psicologia, Cinema