Il “primo contatto” e il riflesso dell’altro – Prima parte: miti, conflitti e costruzioni dell’alterità nella storia

Immaginiamo di trovarci in un paesaggio sconosciuto, circondati da suoni e colori mai visti prima. Ogni forma vivente che si muove intorno a noi sfida la nostra capacità di comprensione. Non sappiamo se siamo di fronte a esseri amichevoli o ostili, se condividiamo un linguaggio, un’etica, una visione del mondo. È un momento di sospensione: un battito di ciglia prima che tutto cambi.
È il cosiddetto “primo contatto”, un concetto che ha attraversato secoli di storia e di riflessioni teoriche, dalla storia alla filosofia e dall’antropologia alla psicologia. Questo termine evoca l’incontro tra civiltà umane precedentemente separate, come quello tra Cristoforo Colombo e i Taíno il 12 ottobre 1492 sull’isola di Guanahani, nelle attuali Bahamas, o tra James Cook e gli abitanti delle isole del Pacifico nel XVIII secolo. Ma più in profondità, il primo contatto è il momento in cui l’alterità si manifesta in tutta la sua potenza, generando fascinazione, paura e trasformazione reciproca.
L’incontro tra culture radicalmente diverse ha rappresentato uno dei momenti più significativi nella storia dell’umanità. Il cosiddetto “primo contatto” è un’esperienza che, al di là della cronaca degli eventi, implica dinamiche di potere, rappresentazioni dell’alterità e conseguenze sociali, politiche ed economiche spesso irreversibili. L’antropologia ha studiato questi incontri non solo nei termini della storia coloniale, ma anche attraverso il modo in cui le società percepiscono, elaborano e narrano l’incontro con l’altro.
Colombo e il miraggio dell’altro
Uno degli episodi più celebri della storia delle esplorazioni è l’arrivo di Cristoforo Colombo nelle Americhe nel 1492, che segnò il primo contatto tra gli europei e gli indigeni Taíno, una popolazione stanziata nei Caraibi, in particolare a Cuba, Hispaniola (oggi Haiti e Repubblica Dominicana), Porto Rico e altre isole della regione.
Nei suoi diari di bordo, Colombo racconta la crescente tensione a bordo nei giorni precedenti lo sbarco. Il 10 e l’11 ottobre 1492, dopo settimane di navigazione in mare aperto e con l’equipaggio sempre più inquieto per la durata del viaggio, furono avvistati segnali che lasciavano presagire la vicinanza della terra: ramoscelli, canne e altri detriti galleggianti. Questi indizi infusero nuova speranza tra i marinai, ma la svolta definitiva avvenne nella notte tra l’11 e il 12 ottobre, quando il marinaio Rodrigo de Triana, dalla caravella Pinta, avvistò finalmente terra. Colombo, tuttavia, affermò di aver già scorto una luce incerta alcune ore prima, rivendicando così il primato della scoperta.
All’alba del 12 ottobre 1492, Colombo e il suo equipaggio sbarcarono su un’isola che gli indigeni chiamavano Guanahaní, nelle attuali Bahamas, e ne presero possesso in nome della Corona di Castiglia. Il primo incontro con i Taíno viene descritto nei dettagli: Colombo osserva con curiosità e stupore la loro nudità, la disposizione pacifica e l’assenza di armi da taglio. Li rappresenta come un popolo mite e generoso, facilmente assimilabile alla cultura europea e predisposto alla conversione religiosa. Tuttavia, questa visione, filtrata attraverso l’ottica eurocentrica dell’epoca, è il preludio a una storia di sfruttamento e conquista, che nei decenni successivi avrebbe portato al drastico declino della popolazione indigena a causa delle malattie, della schiavitù e delle violenze imposte dai colonizzatori.
In “Diario del primo viaggio” (1992), Colombo scrive:
«Essi vanno nudi come la madre loro li partorì e ugualmente le donne, ancorché non ne vidi nessuno che fosse maggiore di XXX anni e molto ben fatti e di bellissimi corpi e di bei sembianti, i capelli grossi quasi come i crini della coda dei cavalli, e corti» (p. 31).
«Non usano armi, né le conoscono, tanto che mostrai loro le spade e le prendevano dalla parte del filo e si ferivano per ignoranza» (p. 32).
«Insomma, prendevano tutto e davano ciò che avevano di buon grado, ma parve a me fosse gente poverissima di ogni cosa» (p. 31).
«Ve ne sono che si dipingono di nero; altri che hanno il colore dei Canarios, né neri né bianchi; ve ne sono che si pitturano di bianco; altri di rosso e altri ancora solo gli occhi, altri il naso» (p. 32).
«E credo che facilmente si farebbero cristiani perché mi parve non avere essi alcuna religione» (p. 32).
Questi estratti del diario di Colombo offrono una testimonianza emblematica del primo contatto tra europei e popolazioni amerindiane, rivelando una narrazione chiaramente filtrata attraverso la mentalità del tempo. L’esploratore osserva con curiosità, ma anche con un occhio intriso di giudizi: i Taíno vengono descritti come ingenui e facilmente assimilabili, mentre l’assenza di armi e di ferro è interpretata come un segno di debolezza. La loro disponibilità agli scambi non è letta come espressione di una cultura dell’ospitalità, ma come un indizio della loro facile sottomissione.
Colombo non può saperlo, ma nelle sue parole prende forma un immaginario coloniale che avrebbe avuto lunga vita: quello del “buon selvaggio”, un individuo spontaneo, innocente e bisognoso di guida. Dietro l’apparente apertura all’alterità, il suo racconto cela una visione che riduce l’altro a un oggetto di conquista e sfruttamento. Questa testimonianza segna l’inizio di un cambiamento irreversibile per le popolazioni indigene delle Americhe, che in breve tempo sarebbero state travolte dalla colonizzazione spagnola, con le sue devastanti conseguenze politiche, sociali e demografiche.
Cortés e il gioco delle maschere
Un altro incontro emblematico fu quello tra Hernán Cortés e gli Aztechi nel 1519, un evento descritto dallo stesso conquistador nella sua Seconda Lettera al re Carlo V, scritta nell’ottobre del 1520 (la versione da me consultata è quella pubblicata nel libro “Cartas de Relacion”, 2016). In questo documento, Cortés offre un resoconto dettagliato del suo arrivo a Tenochtitlán e del primo contatto con Montezuma II. Secondo la sua versione, l’imperatore azteco lo accolse con grandi onori, forse credendolo la reincarnazione del dio Quetzalcoatl, il “serpente piumato”, una delle divinità più importanti dell’antica Mesoamerica, dio del vento, dell’alba, dei mercanti, della conoscenza e delle arti, inventore della scrittura e della coltivazione del mais.
Tuttavia, questa interpretazione è stata fortemente messa in discussione dagli storici. Studi come quelli di Jacques Lafaye (1974) e Tzvetan Todorov (1982) hanno evidenziato che il mito del ritorno di Quetzalcoatl era in realtà marginale nelle credenze azteche e non identificava affatto questa divinità con un “dio vendicatore”. Todorov sottolinea come l’idea di Montezuma soggiogato da una credenza religiosa sia in gran parte una costruzione posteriore, frutto di una strategia narrativa funzionale alla legittimazione della conquista spagnola.
D’altra parte, è Cortés stesso a esplicitare le sue intenzioni quando descrive il suo viaggio verso Tenochtitlán per incontrare Montezuma, di cui vuole la subordinazione alla Corona spagnola: Rivolgendosi al re e riferendosi a una precedente lettera, Cortés scrive:
«E dissi anche che avevo notizie di un gran signore chiamato Montezuma, che gli indigeni di questa terra mi avevano detto essere, secondo le loro indicazioni dei viaggi, a novanta o cento leghe dalla costa […]. E ricordo ancora che mi offrii in risposta alla richiesta di questo signore molto più di quanto fossi in grado di fare, perché dichiarai a Vostra Altezza che lo avrei fatto arrestare o uccidere o rendere suddito della corona reale di Vostra Maestà» (p. 162).
Inoltre, lungo il viaggio verso l’imperatore azteco, Cortés descrive il territorio e l’accoglienza ricevuta: «nella pianura ci sono molti villaggi e fattorie di cinquecento, trecento e duecento contadini, che saranno in tutto cinque o seimila uomini di guerra, e questo è dal dominio di quel Mutezuma. Qui mi hanno ricevuto molto bene e mi hanno dato molte provviste, necessarie per il mio viaggio, e mi hanno detto che sapevano bene che stavo andando a vedere Mutezuma, il loro signore; e che era vero che era mio amico, infatti aveva loro ordinato che ricevessi un’accoglienza molto buona, perché in questo lo avrebbero servito. E ho soddisfatto la loro buona cortesia dicendo che Vostra Maestà aveva notizie di lui e mi aveva ordinato di vederlo» (p. 169).
Secondo Lafaye e Todorov, Cortés ascoltò un consiglio di Malinche, una donna nahua che fu fondamentale per la conquista spagnola del Messico, in quanto interprete, consigliera e intermediaria del conquistador ispanico. L’idea fu di appropriarsi deliberatamente del mito, al fine di sfruttarne il potenziale propagandistico e ottenere un vantaggio strategico. Il suo obiettivo era di forzare un incontro con Montezuma, che gli ambasciatori aztechi continuavano a negargli, e di presentarsi come un sovrano destinato a regnare sul Messico. Come scrive Todorov, Cortés agì con un «calcolo preciso, cercando di produrre un mito indigeno», contribuendo così alla riattivazione di una leggenda funzionale ai suoi scopi politici» (p. 153).
D’altro canto, alcune fonti indigene, come il “Códice Moctezuma”, noto anche come “Códice Xochitepec”, risalente alla fine del XVI secolo, mostrano immagini di Montezuma legato al collo con una corda, forse trattenuta da uno spagnolo, e trafitto da una lancia. La scena suggerisce che l’imperatore potrebbe essere stato giustiziato dagli spagnoli, oppure costretto a rivolgersi al suo popolo sotto minaccia, prima di essere assassinato nel giugno del 1520. Sebbene questo non diradi le nebbie storiografiche, l’immagine fornisce una prospettiva indigena alternativa alla narrazione spagnola, sollevando dubbi sulla versione ufficiale della morte di Montezuma e sui rapporti con Cortés, che dunque non sono da leggere come la semplice esecuzione di una profezia, ma piuttosto come un gioco di strategia e manipolazione politica, in cui il conquistador fece di tutto per imporre il proprio dominio, trasformando un elemento del folklore locale in una potente arma di conquista.
Il racconto di Cortés è la testimonianza più completa a nostra disposizione, ma, sebbene sia una fonte fondamentale, deve essere interpretato con cautela, poiché il suo obiettivo era quello di giustificare la conquista agli occhi del re di Spagna, enfatizzando la legittimità della sua impresa e il presunto consenso degli indigeni alla sottomissione. A posteriori, infatti, il suo incontro con Montezuma è qualcosa dagli effetti storici e duraturi, perché segna l’inizio di uno dei momenti più drammatici della storia americana: nel giro di pochi anni, l’impero azteco sarebbe stato annientato e il Messico trasformato in una colonia spagnola, avviando un processo irreversibile di cambiamento culturale, politico e demografico.
Cook e il ritorno del dio esiliato
In Oceania, il primo contatto tra gli europei e le popolazioni locali avvenne attraverso le esplorazioni del capitano James Cook nel XVIII secolo. Durante il suo primo viaggio, Cook documentò dettagliatamente le sue esperienze nel “Journal of H.M.S. Endeavour”, un manoscritto di 753 pagine, offrendo una preziosa testimonianza diretta delle sue intenzioni e azioni durante questi incontri. In questo diario, Cook descrive con precisione la vita quotidiana a bordo, le condizioni meteorologiche e, in particolare, le interazioni con le popolazioni locali. Ad esempio, durante la circumnavigazione della Nuova Zelanda, uno degli episodi più significativi avvenne il 9 ottobre 1769, quando l’Endeavour gettò l’ancora nella baia che Cook chiamò Poverty Bay («perché non ci ha offerto nulla di ciò di cui avevamo bisogno»). In questa occasione, il capitano annotò:
«Tupia chiamò [i Māori nelle canoe] dicendo che non avremmo fatto loro del male, ma tentarono di fuggire. Ordinai di sparare sopra le loro teste, sperando che si arrendessero; mi sbagliavo, perché presero immediatamente le armi e attaccarono. Fummo costretti a rispondere al fuoco, e alcuni di loro furono uccisi. Tre si gettarono in mare e li portammo a bordo, dove furono trattati con ogni gentilezza. Sorprendentemente, divennero subito allegri, come se fossero tra amici».
Questo primo contatto evidenziò la cautela dei Māori nei confronti degli europei. Nei giorni successivi, gli incontri variarono tra scambi pacifici e momenti di tensione. Ad esempio, il 12 ottobre 1769, Cook descrisse un’interazione più positiva:
«Nel pomeriggio, mentre eravamo in bonaccia, diverse canoe si sono avvicinate alla nave, ma si sono tenute a distanza finché una, che sembrava provenire da una parte diversa, si è allontanata e si è subito accostata, e dopo di lei tutte le altre. [Alcune persone] sono salite a bordo senza esitazione; sono state tutte trattate con gentilezza e molto presto hanno iniziato a interagire con noi».
Tuttavia, non mancarono episodi di incomprensione culturale. La mattina dopo, riferisce Cook, salirono a bordo altri nativi, ma “siccome erano timidi”, le tre persone che erano rimaste a bordo il giorno precedente li rassicurarono dicendo che:
«[noi stranieri] non mangiavamo uomini; da ciò sembrerebbe che questa gente abbia questa usanza tra di loro».
Questi estratti dal diario di Cook offrono uno spaccato della complessità dei primi incontri tra europei e Māori, segnati da una combinazione di curiosità reciproca, malintesi culturali e momenti di tensione, che in alcuni casi sfociarono in veri e propri conflitti. Cook, con il suo sguardo di esploratore europeo, alterna momenti di sincera osservazione a riflessioni cariche di paternalismo.
In un passaggio particolarmente emblematico, egli descrive gli indigeni australiani con una visione idealizzata e riduttiva della loro esistenza:
«Da quanto ho detto dei nativi della Nuova Olanda [l’attuale Australia], ad alcuni potrebbero sembrare il popolo più infelice della terra, ma in realtà sono molto più felici di noi europei. Essendo completamente ignari non solo delle comodità superflue ma anche di quelle necessarie, tanto ricercate in Europa, sono felici di non conoscerne l’uso. Vivono in una tranquillità che non è turbata dalla disuguaglianza delle condizioni».
Questo passaggio riflette una concezione romantica e semplicistica della vita indigena, inquadrata attraverso il mito del “buon selvaggio”, un’idea che giustificava, pur inconsapevolmente, la supremazia della civiltà europea e la sua missione “civilizzatrice” nei territori colonizzati.
Uno degli episodi più significativi e drammatici, tuttavia, riguarda il terzo e ultimo viaggio di Cook, in cui trovò la morte nel 1779 alle isole Hawaii. Oltre a essere un evento storico, infatti, è diventato il fulcro di un acceso dibattito antropologico che ha messo in discussione non solo la dinamica dell’incontro tra Cook e gli hawaiani, ma anche il modo in cui l’Occidente interpreta e racconta il pensiero delle popolazioni indigene.
La narrazione tradizionale occidentale ha spesso rappresentato Cook come una sorta di dio tragico, accolto dagli hawaiani come la reincarnazione di Lono, la divinità polinesiana associata al rinnovamento e all’abbondanza, e poi brutalmente ucciso quando il suo ritorno improvviso infranse l’ordine cosmologico. Marshall Sahlins (1995) ha sostenuto questa lettura, spiegando che la presenza di Cook si era inscritta nella cosmologia hawaiana, e che la sua seconda apparizione, dopo una prima partenza, fosse stata percepita come un’anomalia pericolosa. L’uccisione del capitano, in questa interpretazione, sarebbe stata una necessità rituale per ristabilire l’equilibrio.
Al contrario, Gananath Obeyesekere (1992) ha contestato questa visione, sostenendo che la narrazione del “dio bianco” sia una costruzione coloniale che riproduce lo stereotipo dell’indigeno credulone e incapace di discernere tra un uomo e una divinità. Secondo lui, gli hawaiani avevano piena consapevolezza della natura umana di Cook e lo uccisero non per ragioni mitiche, ma per motivi concreti: la crescente tensione con gli europei, i furti, la violazione di tabù e la decisione del navigatore britannico di sequestrare il re Kalaniʻōpuʻu come ostaggio. Per Obeyesekere, la storia del “dio Cook” è il risultato di un processo di mitizzazione postuma, funzionale alla costruzione del mito occidentale dell’esploratore-eroe.
Al di là della disputa accademica tra Sahlins e Obeyesekere, il caso di Cook mostra come il primo contatto non sia mai un evento neutro: è sempre un incontro asimmetrico, in cui il potere e la narrazione sono in gioco tanto quanto le interazioni materiali tra i popoli. La morte di Cook alle Hawaii non è solo un episodio di conflitto tra civiltà, ma uno specchio delle tensioni epistemologiche che ancora oggi dividono l’antropologia e la storia. È Cook a essere stato ucciso, ma è l’antropologo a dover scegliere tra la cosmologia e la politica, il mito e la razionalità, la voce indigena e il racconto occidentale.
La critica di Gananath Obeyesekere all’interpretazione di Marshall Sahlins ha il merito di sollevare un doppio problema fondamentale: fino a che punto possiamo fidarci delle narrazioni occidentali sui popoli indigeni? E chi ha il diritto di interpretare il pensiero indigeno?
Obeyesekere sostiene che gli hawaiani non avrebbero potuto davvero credere che Cook fosse Lono, perché tale interpretazione rifletterebbe più la fantasia occidentale che il pensiero indigeno.
Tuttavia, questa argomentazione rischia di cadere nello stesso errore che egli attribuisce a Sahlins: negare agli hawaiani la possibilità di avere una cosmologia propria e di interpretare l’arrivo di Cook attraverso il loro sistema di credenze. In altre parole, se Sahlins è accusato di imporre un’interpretazione mitica eurocentrica, Obeyesekere finisce per proiettare un razionalismo altrettanto occidentale sulla mentalità hawaiana, assumendo che il loro comportamento fosse dettato esclusivamente da logiche pragmatiche e politiche.
Questa posizione è problematica per due motivi. Primo, presuppone che il pensiero razionale occidentale sia universale, negando che i popoli indigeni possano vedere il mondo attraverso una lente mitico-religiosa senza per questo essere ingenui o irrazionali. Secondo, ignora le numerose prove etnografiche che mostrano come, nelle culture polinesiane, il rapporto tra storia e cosmologia sia molto più fluido di quanto un approccio rigidamente empirico possa suggerire.
Alla fine, se Sahlins rischia di leggere gli eventi attraverso uno schema mitico e determinista, Obeyesekere cade nel tranello opposto, quello di un razionalismo etnocentrico, che finisce per negare agli hawaiani la complessità della loro visione del mondo. Entrambi, in modi diversi, parlano a nome degli indigeni senza poterli effettivamente ascoltare. E questo rimane il grande dilemma dell’antropologia.
Il peso dell’incontro: miti, potere e memoria del primo contatto
Alcuni primi contatti hanno avuto conseguenze devastanti, alimentando miti che giustificavano la violenza coloniale e la spoliazione delle terre indigene. In Patagonia, i Tehuelche furono descritti come “giganti” da Antonio Pigafetta, il cronista della spedizione di Ferdinando Magellano (1519- 1522). Nella sua “Relazione del primo viaggio intorno al mondo” (1524), Pigafetta racconta di aver incontrato, nel 1520, sulla costa della Patagonia, uomini di statura eccezionale, alti circa tre metri:
«Un dì a l’improvviso vedessemo un uomo, de statura de gigante, che stava nudo ne la riva del porto, ballando, cantando e buttandose polvere sovra la testa […]. Questo era tanto grande che li davamo alla cintura e ben disposto: aveva la faccia grande e dipinta intorno de rosso e intorno li occhi de giallo, con due cuori dipinti in mezzo delle galte».
Questo resoconto contribuì a creare il mito dei “giganti patagonici”, un’immagine esotica che fu ripresa da altri viaggiatori e che circolò in Europa per secoli. Tuttavia, le popolazioni tehuelche e aonikenk (i gruppi indigeni realmente presenti in Patagonia) avevano in effetti una statura sopra la media rispetto agli europei dell’epoca, ma non certo le dimensioni straordinarie descritte da Pigafetta.
La descrizione iperbolica rientra in un più ampio fenomeno di costruzione mitica dell’alterità, tipico delle prime narrazioni di esplorazione. La rappresentazione dei Tehuelche come “giganti” contribuì a rafforzare l’idea della Patagonia come terra misteriosa e selvaggia, alimentando l’immaginario europeo su un Nuovo Mondo pieno di meraviglie e mostri e, dunque, funzionale all’espansione coloniale.
Allo stesso modo, le prime spedizioni nel bacino amazzonico, come quella di Francisco de Orellana nel XVI secolo (documentata da Gaspar de Carvajal, 1542), diedero origine al mito delle Amazzoni, un’immagine che contribuì a distorcere la percezione delle popolazioni indigene, viste ora come tribù primitive, ora come figure leggendarie:
«Queste donne sono molto bianche e alte e hanno capelli molto lunghi i loro capelli sono intrecciati e disordinati sulle loro teste e sono molto magri e vanno in giro nudi vestiti di pelle, con la vergogna coperta, con i loro archi e le frecce nelle loro mani fanno la guerra quanto dieci Indiani, e in verità c’era una donna simile che metteva un centimetro di frecce da parte di alcuni brigantini e altri meno, tanto che i nostri brigantini sembravano porcospini».
Se il passato ha visto questi incontri trasformarsi in racconti di conquista e dominazione, il presente non è meno problematico. L’antropologia contemporanea ha rivolto la sua attenzione ai casi moderni di primo contatto, come quelli avvenuti nel XX e XXI secolo con popolazioni isolate in Amazzonia e Papua Nuova Guinea. Per prevenire il collasso culturale e la diffusione di malattie letali, governi e organizzazioni hanno adottato politiche di protezione. Tuttavia, ogni incontro con il mondo esterno porta con sé rischi e dilemmi etici.
Un caso emblematico è quello dei Sentinelesi delle isole Andamane, che hanno mantenuto una politica di resistenza attiva, evitando ogni interazione con il mondo esterno. L’uccisione del missionario statunitense John Chau nel 2018 ha riacceso il dibattito sull’etica del primo contatto.
Alcuni osservatori hanno erroneamente sovrapposto l’isolazionismo sentinellese a fenomeni moderni come il nazionalismo, trascurando il contesto storico e culturale di una popolazione che ha sempre difeso il proprio isolamento. L’antropologa Madhumala Chattopadhyay (Sengupta 2018), una delle poche studiose ad aver avuto un’interazione pacifica con gli indigeni andamanesi, ha sottolineato come i Sentinelesi, pur essendo considerati “primitivi” dal punto di vista tecnologico, possiedano un sofisticato sistema sociale e una struttura culturale resiliente.
In definitiva, il primo contatto non è mai un evento neutrale. Le dinamiche di potere, le rappresentazioni simboliche e le conseguenze materiali di questi incontri rivelano il modo in cui le società umane costruiscono l’alterità. Si tratta di un processo che continua a influenzare le relazioni interculturali contemporanee, ponendo interrogativi fondamentali sul colonialismo, la globalizzazione e i diritti delle comunità indigene. In altre parole, ogni primo contatto non riguarda solo chi incontra l’altro, ma anche come ogni civiltà sceglie di raccontare e ricordare quell’incontro.
I miti, i conflitti e le narrazioni che emergono da questi episodi sono il riflesso di una domanda più profonda: chi possiede il diritto di interpretare la storia e di definirne i protagonisti?
Immagine di copertina: “I primi indiani che apparvero a Cristoforo Colombo al suo arrivo in America”, tratta da: “Il costume vecchio e moderno”, di Jules Ferrario, 1819-1820.