Papa Francesco, 12 anni fa le elezioni. L’esperienza con lui di Padre Enzo Fortunato, mentre tutti aspettiamo la sua guarigione

Roma . Una elezione di un Papa amato dalla gente, secondo alcuni un pò meno dalle gerarchie ecclesiastiche, che ha depotenziato, mentre un altro Papa, Ratzinger, vivente, si era dimesso, spaccando in parte la chiesa. E al Vaticano era successo di tutto anche quel giorno di 12 anni fa, mercoledì 13 marzo 2013 si aspettava la proclamazione alle 17.30, ma fu solo alle 19.05 che il comignolo installato sul tetto della Cappella Sistina iniziò a sbuffare fumo bianco, in pratica si contò una scheda in più alla quarta votazione, 116 invece di 115, che doveva essere l’ultima consentita, e si annullò facendo una quinta votazione, insomma un Papa contestato da parte di alcuni interpreti rigorosi della norma, ma l’entusiasmo cancellò immediatamente l’attesa e alle otto di sera apparve finalmente Jorge Mario Bergoglio, che aveva assunto il nome di Papa Francesco e il suo sorriso e la bontà e parole sagge e pregne di umanità hanno fatto breccia sulla comunità di fedeli cattolica e la Chiesa è comunità, etimologicamente parlando, di cristiani. Un grande Papa amato da tutti che purtroppo oggi non può festeggiare perché ancora ricoverato all’Ospedale Gemelli proprio nell’anno del Giubileo, nell’unirci alla preghiera per lui pubblichiamo il pensiero sull’esperienza avuta con lui da Padre Enzo Fortunato, originario di Scala, la città più antica della costa d’ Amalfi, e quindi dell’area di cui si occupa Positanonews, la Costiera amalfitana e Penisola sorrentina.
Padre Enzo Fortunato: L’ospedale da campo. Azione e Governo dei 12 anni di Pontificato
Così padre Enzo sul Corriere della Sera di oggi. Poi l’editoriale continua toccando gli aspetti storici del papato di Bergoglio.
“Qui sibi nomen imposuit Franciscum”. Quando il primo Papa gesuita della storia scelse di chiamarsi Francesco, aggiungendo una primizia alla primizia, indossò il nome eliminando gli orpelli con la naturalezza di un Laudato si’, ma pure con la meditata consapevolezza di una stigmata.
Da allora questo habitus francescano double-face ha rivestito alternativamente di gioia e dolore i 12 anni del suo pontificato. Di gioia, e penso sia all’abbraccio travolgente di tre milioni di giovani, durante la GMG di Rio Janeiro del 2013, sia a quello irresistibile di Roberto Benigni a conclusione della GMB, la Giornata Mondiale dei Bambini, che lo stesso Bergoglio ha voluto e istituito. Un abbraccio a quello che l’artista premio Nobel ha definito “l’uomo più grande a capo dello stato più piccolo del mondo”. .
Ma anche di dolore, e penso alla decisione di recarsi sull’isola di Lampedusa, che si deve considerare un viaggio internazionale, non solo italiano, per l’importanza del Mediterraneo e la dimensione globale del problema migratorio, all’isolamento della stanza del Policlinico Gemelli: come un Monte della Trasfigurazione, da cui Francesco ha continuato in queste settimane a dimostrare la propria centralità nell’immaginario mediatico di un mondo che all’improvviso si è ritrovato più solo e meno umano, al semplice pensiero che quella presenza si potesse tramutare in assenza.
Le piaghe dell’umanità e le pieghe di una storia in subbuglio sono state le mete preferenziali del suo ministero “in uscita”, dove “l’ospedale da campo”, così ama definire l’Istituzione, pianta elettivamente le proprie tende.
«Io vedo con chiarezza — ha scritto il Papa — che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia».
È un’immagine potente che sottolinea il ruolo di cura e vicinanza verso chi soffre. Una Chiesa in uscita, pronta a portare la misericordia del Vangelo oltre i propri confini, rispondendo alle ferite dell’umanità con compassione. Teologicamente, il concetto implica un’istituzione non autoreferenziale, ma impegnata in un’opera di guarigione spirituale, sociale e pastorale.
El Papa de Todos, Todos, Todos è riuscito a far sentire “fratelli tutti”, come recita il titolo della sua enciclica sociale, anche i più lontani: da intendersi sociologicamente, con interi settori del Popolo di Dio, dai divorziati all’universo LGBT, che si sono riavvicinati e oggi vedono la Chiesa diversamente. O in senso geografico: dalla Mongolia, dove si è recato a visitare una comunità dello 0,01 per cento, in un’applicazione geopolitica del principio per cui gli ultimi saranno primi, agli Emirati Arabi, dove nel 2019, a 800 anni esatti dall’incontro fra San Francesco e il Sultano, ha sottoscritto con l’Imam di Al-Azhar la Dichiarazione sulla Fratellanza Umana, Magna Carta dell’umanità del Terzo Millennio.
Da ultimo l’impresa più ardua: quella di trasformare anzi “convertire” la solitudine ospedaliera del 10° piano in un eremo che analogamente a quello della Verna, sospeso sulla parete ripida di un monte, si affaccia sulla vertigine del futuro e, come le stigmate o le rose che i bambini porteranno Domenica al Gemelli, diffonde un profumo di speranza. Unitamente alla certezza che Dio non abbandona, e non abbandonerà, il mondo.