La festa dell’ambivalenza: perché celebriamo la Domenica delle Palme?

Ci siamo mai chiesti perché festeggiamo la Domenica delle Palme? Non mi riferisco all’evento storico dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, ma al significato che questa celebrazione assume oggi, alla luce degli eventi successivi della Settimana Santa. Perché festeggiamo, sapendo già come andrà a finire? Sapendo che Gesù, acclamato tra canti e rami d’ulivo, sarà presto abbandonato, tradito, condannato e messo a morte? E, soprattutto, sapendo che siamo stati noi, la folla, a compiere questo voltafaccia?
Dietro quella che sembra una celebrazione gioiosa si nasconde un racconto inquietante, ambiguo, perfino scandaloso. Forse è proprio in questo paradosso che risiede la forza della Domenica delle Palme. Essa ci obbliga a interrogarci non su Dio, ma su noi stessi. Il racconto è noto: Gesù entra a Gerusalemme montando un asino, come aveva fatto il re Davide, e viene accolto da una folla festante. La gente stende mantelli, agita rami di palma, segni di giubilo, ma anche di regalità, liberazione e vittoria. Tutto sembra un grande trionfo. Un popolo oppresso dalla dominazione romana e da un’élite religiosa distante accoglie colui che interpreta come il Messia, il liberatore. Il clima è carico di speranza, ma è una speranza fragile, fondata su una proiezione collettiva: Gesù viene acclamato non per quello che è, ma per ciò che il popolo spera che sia. È l’inizio di una grande illusione messianica.
Il popolo proietta su Gesù le proprie aspettative, trasformandolo in un messia politico, un liberatore secondo le categorie umane del potere: forza, comando, rivincita. Sperano in un Davide redivivo, un capo rivoluzionario capace di liberare Israele dal giogo romano. Ma Gesù non risponde a questa attesa. Non la alimenta, né la nega, ma la decostruisce, la rovescia. Non cavalca la folla come un condottiero, anzi si presenta su un asino, non entra in città con le armi, non rovescia il potere, non chiama alla rivolta. È mite, silenzioso, profetico. E questo, per molti, è già un tradimento. Parla in parabole, non in proclami: non chiama alla violenza, ma alla conversione; non attacca i romani, ma gli ipocriti; non organizza un colpo di stato, ma si ritira a pregare.
In termini moderni, Gesù rifiuta ogni forma di potere come dominio. Questo è incomprensibile per la logica della folla, che ha bisogno di leader forti, semplificazioni, nemici. Gesù non offre nulla di tutto questo. Non aveva un “progetto politico” tradizionale: non voleva il potere, ma una trasformazione radicale della coscienza umana. Voleva che ciascuno diventasse libero, consapevole, capace di scegliere il bene non per paura della punizione, ma per amore della verità. In questo senso, era “politico” nel modo più alto possibile: voleva cambiare la polis a partire dall’uomo, una rivoluzione silenziosa, interiore, che si propagasse come un seme nel terreno. Ma per questo, non poteva essere compreso da chi cercava risultati immediati, potenza, vendetta.
Quattro giorni dopo, il popolo che acclamava ora grida: “Crocifiggilo!”. Al momento del processo tra Gesù e Barabba, Pilato propone una scelta simbolica: un messia spirituale o un ribelle violento, un uomo di parole o un uomo d’azione. E la folla sceglie Barabba.
Come è possibile questo voltafaccia? La risposta non sta solo nei testi religiosi, ma nell’antropologia, nella psicologia collettiva, nella storia dei popoli e delle rivoluzioni. La folla non è un soggetto razionale, è una massa emotiva, mutevole, impaurita. Ama osannare, ma ancor più ama punire. Gesù non viene crocifisso nonostante la sua innocenza, ma proprio a causa di essa. Non ha voluto piegarsi né al potere religioso, né a quello imperiale, né al bisogno popolare di un eroe violento. E allora deve essere espulso.
È il capro espiatorio perfetto, secondo la teoria di René Girard: colui che porta su di sé tutte le contraddizioni e viene sacrificato per ristabilire un ordine minacciato.
La Domenica delle Palme è uno dei riti più sinceri e meno ipocriti del calendario cristiano: non ci salva, ci espone. Non ci promette la redenzione, non ci illude con un lieto fine, non ci assolve preventivamente. Al contrario, ci obbliga a riconoscerci nella parte peggiore del racconto: non nei discepoli fedeli, ma nella folla incerta, mutevole, spaventata. È un rito che non consola, ma mette a disagio. Ci mette di fronte al nostro entusiasmo superficiale, alla nostra sete di eroi che ci somiglino, ai nostri giudizi troppo rapidi. Ci dice che la verità non è quasi mai dove la folla guarda e che spesso, quando la troviamo, è già tardi.
La Domenica delle Palme non ci chiede di credere in Dio, ma di non mentire a noi stessi.
È scomoda perché non offre alibi, non dice: “Guardate com’era cattiva quella gente”, ma: “Guardate come siamo fatti noi, ancora oggi”. Ci invita non a condannare i crocifissori, ma a riconoscere che, in certi momenti, abbiamo avuto in mano anche noi il martello e i chiodi, o almeno il silenzio complice. Il progetto di Gesù fallisce completamente sul piano umano: viene abbandonato, frainteso, ridicolizzato, torturato e ucciso. E anche dopo la sua resurrezione (per chi ci crede), il mondo non cambia affatto: la folla resta irrazionale, i popoli restano violenti, il potere resta feroce. I secoli passano e l’umanità ripete gli stessi errori.
Allora, che senso ha avuto quella vicenda? La risposta non può essere “funzionale” – non è che ha senso perché ha cambiato il mondo (non lo ha fatto). Ma ha senso come testimonianza, come gesto puro e radicale di fedeltà alla verità anche senza garanzia di successo. Gesù non agisce per vincere, ma per essere coerente. E questo è rarissimo. Il senso di quella vicenda, allora, non è nei risultati, ma nel rifiuto di cedere alla menzogna, nel coraggio di restare umani anche quando la folla disumanizza, anche quando la verità non viene riconosciuta da nessuno. Gesù è un segno contro la folla, un atto estremo di resistenza etica, che dice: si può vivere in verità anche se tutti gridano il contrario. E forse basta questo per rendere la sua vicenda una luce anche per chi non crede.
Pertanto, la celebrazione della Domenica delle Palme ci espone alla verità e, forse proprio per questo, ci apre alla possibilità di un cambiamento autentico. È, prima di tutto, la festa dell’illusione: non è Dio a ingannare il popolo, ma siamo noi che ci illudiamo da soli.
Proiettiamo su un uomo le nostre aspettative, i nostri sogni di liberazione, le nostre voglie di rivincita. E quando quella figura non risponde all’immagine che ci eravamo costruiti, quando delude la nostra fame di eroi, lo abbandoniamo o lo condanniamo. Lo facciamo da sempre e lo facciamo ancora oggi. Viviamo in un’epoca in cui si grida “Osanna!” per ogni leader carismatico che sa toccare le corde della frustrazione collettiva. Ci lasciamo sedurre da chi ci offre soluzioni semplici a problemi complessi, acclamiamo nuovi messia politici, imprenditori-salvatori, cantori dell’identità perduta. E poi, quando il castello si rivela per quello che è – una retorica vuota, un populismo da baraccone, un autoritarismo mascherato – restiamo attoniti o cerchiamo un nuovo idolo.
Così facendo, ripetiamo lo stesso schema antico, ma rovesciato: ieri fu acclamato un uomo che non voleva essere un eroe, che rifiutava il potere, che non parlava alla pancia, ma al cuore e alla coscienza. E per questo fu rifiutato. Oggi, invece, acclamiamo proprio quelli che promettono miracoli, che gridano, che dividono, che seducono. È la folla che non è cambiata, non la figura al centro del rito. La folla continua a cercare salvezza dove la salvezza non abita. Come la folla della Gerusalemme di due millenni fa, non impariamo.
Non vogliamo imparare. Preferiamo illuderci perché l’illusione, almeno per un momento, consola.
La Domenica delle Palme, allora, è il rito che ci costringe a chiederci: quante volte abbiamo applaudito il ciarlatano e ignorato il giusto? Quante volte abbiamo seguito chi gridava più forte, e non chi camminava in silenzio? E soprattutto: abbiamo davvero imparato qualcosa dalla storia? O continuiamo a festeggiare i nostri stessi errori, anno dopo anno, ramo dopo ramo? Allora, davvero: perché festeggiare? Perché oggi più che mai abbiamo bisogno di riti che non ci anestetizzino, ma che ci mettano in crisi. Che ci facciano male, se necessario, ma in modo fertile. Abbiamo bisogno di riti che non siano solo consolatori, ma rivelatori. E la Domenica delle Palme è questo: un rito che non maschera, ma disvela; non protegge, ma smaschera; non incoraggia, ma interroga.
È necessario perché ci ricorda – in un’epoca di cinismo e costruzioni narrative – che la verità non è popolare, che il bene non sempre è applaudito, che la giustizia può anche perdere, apparentemente. Ma che vale comunque la pena scegliere la fedeltà alla propria coscienza, anche quando il mondo intero sembra andare nella direzione opposta. C’è qualcosa di profondamente inquietante nella Domenica delle Palme, qualcosa che sfugge alla narrazione tradizionale, alla celebrazione tranquilla, alle famiglie in festa, ai bambini con i rami intrecciati, alle foto sorridenti all’uscita dalla chiesa. Ci comportiamo come se non sapessimo già cosa succederà, come se l’ingresso di Gesù a Gerusalemme fosse una storia a sé, sospesa, luminosa. Ma il seguito c’è e lo conosciamo benissimo. Tra quattro giorni, quella stessa folla che oggi canta “Osanna” griderà “Crocifiggilo”. E noi, oggi, con vestiti nuovi e rami d’ulivo tra le mani, facciamo finta di non saperlo.
È una messa in scena collettiva, una rimozione rituale, un’illusione consapevole. Come possiamo celebrare con tanta leggerezza un rito che ci denuncia? È spiegabile solo attraverso un bisogno profondo di autoassoluzione, di rimozione del conflitto, di adesione al rito senza adesione al suo senso. La Domenica delle Palme mette a nudo il nostro bisogno di illuderci, di credere nella bellezza del gesto, nella forza del gruppo, nell’autorità di chi guida, anche quando sappiamo che ci sta conducendo nel vuoto. Preferiamo l’entusiasmo al discernimento, la coerenza apparente al dubbio sincero. E così, ogni anno, celebriamo l’ingresso di un condannato a morte, fingendo di non sapere già che lo uccideremo.
Questo meccanismo non appartiene solo alla religione, è universale, politico, sociale, psicologico ed è più attuale che mai. Anche oggi, in pieno XXI secolo, un capopopolo può convocare una manifestazione di piazza senza alcuna visione razionale, e la folla accorre.
Non importa se mancano proposte, se gli slogan sono contraddittori, se il messaggio è ambiguo o manipolatorio. La gente accorre perché vuole credere. Non importa se dietro l’apparenza di principi così vaghi da sembrare giusti si nascondono convenienze, connivenze, complicità con il peggio e con i peggiori. Ciò che conta è l’illusione momentanea di essere dalla parte giusta. Capita così che iniziative pubbliche presentate come nobili o morali, in realtà, non offrano alcuna alternativa concreta, non propongano soluzioni, non indichino una direzione. Sono esercizi retorici, costruzioni sceniche, eppure attraggono consensi, radunano folle, generano entusiasmo perché rispondono a un bisogno emotivo, non razionale.
Eppure migliaia di persone vi aderiscono perché hanno bisogno di sentirsi giuste, non di essere lucide. È più facile gridare “Osanna!” oggi, che accettare la fatica di una posizione complessa domani. Come ai tempi di Gerusalemme, la folla si muove non per convinzione, ma per riflesso, per bisogno, per adesione emotiva. Oggi acclamano, domani rinnegheranno perché la memoria collettiva è debole, perché la responsabilità è sempre dell’altro, perché il rito è più rassicurante del pensiero. La Domenica delle Palme, allora, non è solo una commemorazione liturgica, è uno specchio. Ci mostra il volto che non vogliamo vedere: il nostro. Non ci chiede di credere in Dio, ci chiede di smettere di mentire a noi stessi. E questo, oggi come ieri, è infinitamente più difficile.
Festeggiare oggi la Domenica delle Palme significa accettare di essere parte del paradosso, non cercare la coerenza assoluta, ma abitare il conflitto, le contraddizioni, le delusioni. Significa riconoscere che la libertà non consiste nel gridare col gruppo, ma nel restare in silenzio quando il coro diventa ingiusto. In un tempo di semplificazioni brutali, di giudizi binari, di condanne sommarie, questo rito ci offre un insegnamento raro: guardati prima di puntare il dito. E poi: resta, anche se sei deluso, anche se non capisci tutto.
Perché è solo passando per il tradimento, per la paura e per la solitudine che si può arrivare – forse – a una forma di salvezza non imposta dall’alto, ma scelta, costruita, conquistata e condivisa.
La verità non arriva mai tra le urla, non si annuncia col clamore delle folle, né con i titoli dei giornali. La verità cammina piano, arriva su un asino, non su un carro di guerra. Non promette successi, ma chiede fedeltà. Non ti dice ciò che vuoi sentire, ma ciò che sei chiamato a diventare. La Domenica delle Palme è l’attimo fragile in cui il vero e il falso si toccano, un giorno in cui la speranza sboccia e subito appassisce. Ma è anche un giorno in cui si può decidere di restare – non con chi vince, ma con chi è vero, di non seguire chi urla, ma chi resta, di scegliere non chi promette tutto, ma chi non scende a patti con nulla.
Perché forse è lì, proprio lì, in quel silenzio che non ha bisogno di applausi, che comincia la resurrezione (o la rinascita, se preferite).