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Massa Lubrense celebra Gino Doria: un omaggio a 50 anni dalla scomparsa

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Il 3 gennaio
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Massa Lubrense celebra Gino Doria: un omaggio a 50 anni dalla scomparsa

di lucio esposito

Massa Lubrense rende omaggio a Gino Doria: un evento per celebrare la sua eredità culturale

L’Archeoclub Massa Lubrense organizza, venerdì 3 gennaio alle ore 18.00, presso la Pro Loco di Massa Lubrense ,un evento in memoria di Gino Doria, figura di rilievo nel panorama culturale italiano. In occasione del cinquantesimo anniversario della sua morte, verrà presentato il volume a cura di Giovanni Visetti, un’opera che restituisce al pubblico la complessità e la ricchezza della figura di Doria, con particolare attenzione alle sue radici massesi.

Il volume, che si avvale di una vasta documentazione d’archivio, offre un ritratto intimo e approfondito di Doria, analizzandone la produzione scientifica, le passioni collezionistiche e il suo impegno civile. Attraverso la lettura di scritti inediti, sarà possibile apprezzare la versatilità e l’originalità di un intellettuale che ha lasciato un segno indelebile nella cultura napoletana e italiana.

RICORDANDO BIAGIO (Gino) DORIA NEL 50° ANNIVERSARIO DELLA MORTE

Un doveroso omaggio allo Zio illustre, un libro per caratterizzare il ricordo di un intellettuale, scrittore, giornalista napoletano con Massa Lubrense nel cuore.
«Zio Biagio, alias Gino Doria», il libro curato da Giovanni Visetti, pubblicato dalla sede Lubrense dell’Archeoclub d’Italia, verrà presentato venerdì prossimo, 3 gennaio, alle ore 18:00 presso la Pro Loco di Massa Lubrense. Dialogheranno con l’Autore Antonino Siniscalchi e Domenico Palumbo.
Biagio, Gino Doria (1888-1975), è stato giornalista, scrittore e storico italiano. Girò il mondo. Dal 1910 al 1918 trascorse una lunga permanenza in America Latina. Tornato a Napoli, collaborò con diversi giornali, fra i quali «Il Giorno» di Matilde Serao. Durante il fascismo, a causa di un articolo irriverente, fu radiato dalla professione giornalistica. In quegli anni, oltre ad un avvicinamento alle istanze e alle iniziative dell’antifascismo, che peraltro lo videro aiutare nel momento del bisogno Giorgio Amendola, rimontano i suoi rapporti di amicizia con Benedetto Croce e Salvatore Di Giacomo.
Direttore del Museo di San Martino, approfondito conoscitore di storia napoletana e sottile bibliofilo, come lo ricordava Guido Piovene, unì sempre, nella sua attività professionale, la stesura di articoli alla pubblicazioni di libri, nei quali si registra, in particolare nel periodo tra le due guerre, il passaggio dal contributo tipico dell’ordinata storiografia di stampo erudito allo stile di una scrittura che, pur rigorosa e sistematica, si faceva «micro-storiografia del divertissement».
Oltre a numerosi racconti, e a saggi di storia, aneddotica, arte e toponomastica campana, ha curato la pubblicazione di biografie e documenti inediti su Giuseppe Garibaldi e Anita Garibaldi, su Camillo Benso di Cavour e Gioacchino Murat, su Vittorio Imbriani, Benedetto Croce e su Carmine Crocco. Un apposito fondo archivistico a suo nome è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, alla quale lo stesso Doria donò oltre 10.000 volumi.

Generico gennaio 2025

Positanonew ha  pubblicato per Gino Doria altri articoli e cose inedite.

Generico gennaio 2025Generico gennaio 2025

Per questa occasione  la redazione cultura  pubblica scritti di Gino Doria relativi alla Penisola Sorrentina in volumi ormai rari.

I TESORI

SADEA/SANSONI EDITORI

di Gino Doria

Nego fermamente che, per descrivere

le forme fiisiche e penestrare gli spiriti reconditi

di questa penisola sorrentina, sia

utile far ricorso alle scienze fisiche e morali

come la geologia e la paleontologia,

la teologia e l’astrologia, la mitologia e la

sua deformazione della storia; le quali

tutte, comunque adoperate, ad altro non

servirebbero se non a rendere grigia, pesante

e oppressiva l’immagine di un luogo

che si considera uno dei più belli se non

il più bello del mondo. Su questo splendido

corpo, invano insidiato dalle mostruose

deità del mondo moderno: la Necessità

e la Cupidigia, come stonerebbero

e sembrerebbero impropri, oltreché offensivi,

il dato cronologico, il computo statistico

e, Dio guardi, il precetto moralistico.

Credo, invece, che il miglior aiuto per

comprendere e far comprendere agli altri,

per sentire appieno l’incanto di questa

terra, sia l’immaginazione, o meglio ancora

la fantasia: questa immensa forma

intuitiva che — e chiamatela pure la pazza

di casa – sgretola le faticose costruzioni

dei dotti, irride ai documenti (che spesso

risultano poi falsi) e ignora le aride tabelle

della statistica, mentre perviene vittoriosamente

a ricrearsi intorno gli aspetti

del mondo antico, e anzi preistorico, così

come una macchina da presa inquadra

quelli del mondo moderno.

Soltanto la fantasia può guidarci nello

habitat favoloso dei nostri progenitori, e

questi mostrarci nella loro elementare felicità;

può rendere corporei quelli che si

consideravano come impalpabili miti, e

valga un esempio. Sappiamo, geologicamente,

che nei tempi più remoti l’isola

di Capri era congiunta alla penisola sorrentina;

un cataclisma, migliaia e migliaia

di anni fa, separò la penisola dall’isola

e il mare colmò l’abisso creato dalla

profonda frattura con quel meraviglioso

e inquieto canale che sono le « bocche di

  1. Sorrento e la sua costa

dalla Punta del Capo, dove restano

i ruderi di una villa romana

popolarmente detta di Polito Felice.

Sullo sfondo la cornice dei Monti

Lattari.

Capri ». Un giorno lo attraversò un eroe

che appartiene, sì, alla storia del mito,

ma più e con imperitura validità alla storia

della poesia. È il furbo e accorto, nonché

animoso e prudente Ulisse, il quale sapeva

che quel mare era abitato dalle

Sirene, pericolose creature, mezzo donne e

mezzo pesci, le quali incantavano i navigatori

con il loro dolce canto e poi, istupiditi

che li avevano, li trascinavano sul

fondo marino e vi consumavano il più mostruoso

amplesso che la storia ricordi.

Conscio di tale pericolo l’uomo della petrosa

Itaca turò ai compagni gli orecchi

con la cera, perché non sentissero quei

canti e si fece legare all’albero maestro

per resistere all’impulso di buttarsi a mare

e raggiungervi la splendida metà muliebre

di quelle creature. Questa scena, che

parrebbe grottesca se la sua venerabile

antichità non le conferisse somma dignità,

è disegnata su un celebre vaso custodito

nel Britsh Museum. Senoché in, questa

figurazione, la più nota della iconografia

sirenica, i favolosi mostri non sono più

oceanici, mezzo donne e mezzo pesci, ma

aerei, mezzo donne e mezzo uccelli, anzi

arpie.

A me, napoletano autoctono, piate attenermi

alla versione ittiologica perché

sotto tale aspetto i miei concittadini venerarono

per secoli la sirena Parthenope

sepolta sul colle di Caponapoli; e perché

tale la vide un libraio del Seicento, il

franco-napoletano Antonio Bulifon, facendone

la marca tipografica delle sue edizioni.

Eppure sarebbe sforzare troppo la fantasia,

e subordinarla a sciocchi giuochi di

parole, se volessimo trovare la reviviscenza

del mito sirenico nelle bionde e muscolose

bellezze nordiche che, insieme con

le brune nostrane, vengono a immergersi

e sguazzare nelle onde ancora (ma per

quanto?) incorrotte delle coste di Capri

e della penisola. Meglio conviene, per

sentirsi più vicini al mondo della favola,

contemplare la bella e gagliarda gioventù

nativa che fra il litorale e la collina attende

alla pesca e all’agricoltura con quella

gaiezza che non si accompagna di solito

al lavoro. Quale differenza dalle popolazioni

finitime! Il portamento delle donne

è quasi regale, i giovani hanno gli scatti

guizzanti dei discoboli. In loro è la traccia

della origine greca, anzi teleboica, a

cui si andarono sovrapponendo e gli etruschi

e i sanniti, e Dio sa quali felici incroci

dalle incursioni barbaresche alle ondate

del turismo internazionale. Né si

creda che con ciò si voglia insinuare qualche

oltraggioso dubbio sulla onestà di

quelle donne; se un tempo dovettero subire,

rassegnate, la violenza degli incursori

mussulmani, più tardi con gli stranieri

di passaggio strinsero, molte volte,

  • matrimoni legittimi. Quante mansions

della vecchia Inghilterra sono sotto lo

scettro di quelle che erano state agili componenti

della tarantella sorrentina!

La venustà e la grazia degli abitanti

sono il complemento della bellezza dei

luoghi, la quale è così mossa, così varia

e cangiante da mettere chi la percorra nel

più serio imbarazzo per una libera elezione.

Eccoci, per esempio, inizio della

penisola, nella operosa cittadina di Vico

Equense, che si affaccia sulla marina di

Equa e sulle correnti calde e fredde dello

Scraio. Ma noi, rivolto un reverente pensiero

a quel vescovo cittadino, monsignor

Natale, che tra i martiri della Repubblica

Partenopea (e perché non, anche, alla memoria

di Gaetano Filangieri, che meditò

le sue feconde riforme della legislazione

nel castello dei Conca, poi dei Giusso?),

noi, dunque, affrontiamo l’erta per raggiungere

uno dei luoghi più incantevoli

di questa terra, il valico di Santa Maria

del Castello, dominato e quasi atterrito

dalla incombenza della calcarea parete meridionale

del monte Sant’Angelo a tre

pizzi. Di quassù, come del resto in tanti

altri luoghi della penisola, si spiega sotto

lo sguardo dello smarrito osservatore il

doppio spettacolo dei golfi di Napoli e di

Salerno. A crear tutto ciò, per monoteisti

che possiate essere, dovrete ammettere

che cooperarono due dei. Uno, mite e benigno,

arcadico e sentimentale, dette vita

al golfo di Napoli e, infinitamente savio,

lo fece a guisa di cerchio e ne sbarrò l’entrata

con isole protettrici, e le ornò di

cale e seni sicuri, e gli diede la varietà

dalla bassura flegrea alle montagne dei Lattari,

e vi fece crescere la flora più vaga

e il più impenetrabile bosco era di aranci.

Ma il Dio che creò il golfo di Salerno

era un Dio corrucciato e terribile: precipitò

rocce su rocce, senza alcuna simmetria

e cura topografica, così che il golfo

nacque aperto e indifeso a tutte le vendette

del mare; e i monti accavallati, senza

humus, rimasero eternamente calvi, e il

mare selvaggio continua a mordere la costa,

povera di ripari.

Poiché, per l’indifferenza dei suoi amministratori,

la costa sorrentina non è

stata fornita né della comiche media né

della superiore, così noi procediamo a

piedi, per vie mulattiere e per sentieri alpestri,

verso i colli di San Pietro, dove

s’incontra la splendida nuova strada detta

« il nastro azzurro ». La sola ragione

per la quale abbiamo rinunciato a servirci

della più comoda, cioè carrozzabile, corniche

inferiore è questa: che di quassù

più vasto, ridente e istruttivo si snoda

il grande panorama che avremmo potuto

ammirare iniziando la discesa dalla punta

di Scutolo. Cogliamo, cioè, e comprendiamo

in un solo sguardo, la opulenta distesa

limitata a oriente da Meta e a ponente

dal capo di Sorrento: la plunities

dei Romani, donde il nome di Piano di

Sorrento, che è la Milano o la Torino

di questo lembo di terra, in tanta altra

parte idilliaco.

A Meta, nella Chiesa del Lauro, centinaia

di ex-voto marittimi ricordano glorie

e sacrifici navali di questa gente: grandi

ammiragli alla flotta borbonica ed a

quella nazionale, mercantili che solcarono

tutti gli oceani, come oggi alimentano gli

equipaggi delle superpetroliere. Ebbe, al

tempo di Murat, un istituto nautico oggi

incorporato al « Nino Bixio » di Piano,

fabbrica inesauribile di uomini di mare

sì di coperta che di macchina.

All’altro estremo, di là dal capo, si

svolge il territorio di Massalubrense, che

può considerarsi la perla della penisola,

anche se abbia subito violenze e brutture

quali il famigerato villaggio di San Montano;

ma il suo sistema orografico è così

vasto e variato che possono ancora scoprirvisi,

fra San Liberatore e la Punta della

Campanella, ove fu stanziato il culto di

Minerva, luoghi di estrema bellezza e di

sicuro riposo: almeno quel tanto di riposo

compatibile con la conclamante e non acclamata

civiltà meccanica dei giorni nostri.

Ma dovette, la saggia Pallade, cedere il

potere a una moltitudine di Madonne,

Santi e Beati che avvolsero l’intera penisola

di un’aura cristiana, profondamente

radicata nei cuori. Basti ricordare il grande

protettore di Sorrento, Sant’Antonino

che, apparendo in sogno a Sicardo di Benevento,

lo fece desistere dall’assedio di

Sorrento (835). E come, a contrasto e

per curiosità dei lettori, non ricordare

che nell’Abbazia di San Pietro, sopra Crapolla,

fu una volta ospite il diabolico

Pietro Aretino?

Al centro di questo meraviglioso pezzo

di terra ecco la sua incontestata capitale,

ecco Sorrento che si affaccia dall’alto

della sua falaise tufacea. La sua bellezza

e il suo carattere si confondono con

la sua storia, talvolta gloriosa come al

tempo del libero ducato (sec. IX) e talvolta

dolorosa per le reiterate incursioni

barbaresche, di cui la più mostruosa fu

quella del 1588. Ebbe due sedili nobili:

quello di Dominova ostenta ancora la sua

svelta grazia quattrocentesca, e diede la

vita a una schiera di uomini illustri dei

quali, i rimanenti trascurando, pur convenendo

che vi nascesse per caso, sovrasta

ogni altro Torquato Tasso. Denominazioni

ad alberghi, statue in piazza, raccolta

di libri nel Museo Correale, nomi imposti

a molti neonati non sono che i segni

esteriori della venerazione (qualche volta

dettata dal solo interesse) in cui il grande

poeta è tenuto dai suoi concittadini.

Saliti con Tasso alle alte vette della

poesia (sorrentino anche Bernardino Rota,

il tenero cantore dell’amor coniugale) potrebbe

sembrare sconcordante e irriguardoso

un richiamo alle prestazioni di un’altra

e non meno benefica dea: la Gastrea.

Ma qui tutto è così ben combinato ed armonico,

fra la bellezza dei luoghi e delle

persone, la poesia e l’arte, la natura e la

sua industre applicazione, che sembrerà naturale,

per non dire indispensabile, l’accenno

alle produzioni del suolo. La varietà

dell’altitudine consente il graduale

passaggio dai castagni e dai noci alla opulenta

ricchezza degli agrumi (aranci a Sorrento,

limoni a Massa), intermezzati dagli

argentei oliveti e dalle flessuose viti,

qui tenute alte. Né mi vergogno di riven-

  1. Vico Equense all’alba. Panorama 4. Vico Equense. La bella cupola

da Capo Orlando. maiolicata della Chiesa dei Santi

Ciro e Giovanni, ricostruita

  1. Vico Equense, Chiesa nel 1715.

dell’Annunziata (Cattedrale). .

Ai piedi della rupe la Marina 5. Panorama di San Salvatore,

di Equa. nei pressi di Vico Equense.

6-7. Mela, Basilica della Madonna 9. Meta. Pozzo di maiolica

del Lauro. Bue delle 24 formelle in un cortile,

della porta lignea del XVI secolo,

raffiguranti i Misteri del Rosario.

  1. Meta, Basilica della Madonna

del Lauro. Il fastoso barocco

dell’aitar maggiore.

  1. Piano di Sorrento. Il porto

dall’alto di uno dei caratteristici

valloni della costiera.

dicare, fra tanti e maggiori titoli onorifici,

la sapienza millenaria con la quale le

offerte della natura vengono trasformate

nella sapida pasticceria onde va superba

Piano, nei morbidi lattici di Vico e di

Massa, nel vino leggero e frizzante che ci

fa ricantare le strofe di Orazio.

Certo è ben lungo il passo dai tuffi delle

Sirene nel mare di Capri alle conquiste

e alle comodità della vita moderna; ma il

tempo non ha presa sulla bellezza, la quale,

come disse Keats, « è una gioia per

sempre ».

SINTESI STORICA

Il territorio di Sorrento entra nella storia

con la colonizzazione greca (la tradizione

indica nei Teleboi il popolo che avrebbe

dato origine alla città nel VII secolo

  1. C). Liberata dal pericolo etrusco in

seguito alla vittoria dei Siracusani (battaglia

di Cuma, 474 a. C), entrò nell’orbita

dei vincitori. Verso gli inizi del IV

secolo a. C. venne conquistata dai Sanniti

e aggregata ad una delle confederazioni

campane, con capitale Nuceria Altaferna.

Vinti i Sanniti dai Romani (289 a. C), Sorrento

ne seguì le sorti restando coinvolta

nella seconda guerra punica. Occupata

(90 a. C.) durante la guerra sociale dall’esercito

sannita di Papio Mutilo, fu poi

riconquistata da Siila, che dette così inizio

alla romanizzazione definitiva della costa

sorrentina. Augusto vi dedusse una

colonia militare, e i patrizi la ricoprirono

di grandiose ville.

Dopo la caduta dell’Impero Romano

d’Occidente, passata ai Bizantini, che riuscirono

a difenderla dall’attacco dei Longobardi,

prima, dei Saraceni, poi, fece parte

del Ducato di Napoli, e solo in epoca

piuttosto avanzata cercò di riconquistare

la propria autonomia, trovando appoggio

negli Amalfitani e, successivamente, nel

principato longobardo di Salerno. Nella

prima metà del X secolo era comunque sotto

la giurisdizione napoletana. Nel 979

ottenne un proprio magistrato supremo

col titolo di « praefectus et fortior ». Nel

1039 il duca di Salerno Guaimario V se

ne impadronì e ne affidò il comando al

fratello Guido. Dopo gli anni burrascosi

seguiti all’uccisione di Guaimario nel 1068

cominciò il governo autonomo di un Sergio,

e poi di un suo figlio che si intitolò

« princeps surrentinorum ». Ma caduta

in potere di Ruggero II (1133), seguì

da allora le sorti della monarchia meridionale.

La dominazione normanna segnò

un periodo di intenso sviluppo economico

e sociale, che portò a una forte

rivalità con le cittadine vicine e tra i diversi

ceti sociali. Aspre lotte si ebbero

soprattutto sotto Federico II. Caduta la

dinastia sveva Sorrento parteggiò per gli

Angioini contro gli Aragonesi. Alla morte

di Giovanna I, fu fedele ai Durazzeschi.

Si ribellò poi a Giovanna II, sia al riaprirsi

della lotta tra Angioini e Durazzeschi

(1420) sia alla rottura dei rapporti

tra la regina e Alfonso V d’Aragona, che

la diede in feudo a Gabriele Correale. Rimase

tuttavia costante l’ostilità verso gli

Aragonesi. Nel 1489 tutta la riviera era

unita sotto la signoria di Giovanna d’Aragona,

figlia di Ferdinando il Cattolico,

alla quale tornò anche nel 1496, dopo la

partenza di Carlo Vili. Agli inizi del ‘500,

nonostante la strenua resistenza, tutto il

regno meridionale cade sotto il dominio

spagnolo, che durerà un secolo e mezzo:

periodo tormentato e di grande decadenza.

Alla venuta del Lautrech e di Andrea Doria,

Sorrento e le altre città della costa

si affiancarono subito ai Francesi. Severa

fu perciò la successiva repressione degli

Spagnoli, a cui si aggiunge il nuovo pericolo

delle incursioni barbaresche. Riuscì

invece ad evitare, anche se ad alto prezzo,

l’infeudamento.

Nel 1648 Sorrento fu assediata dal genovese

Giovanni Grillo, mandato dal duca

di Guisa, e fu salvata solo dall’intervento

delle milizie vicereali al comando di Cesare

Carafa. Trascorso senza fatti di rilievo

il viceregno austriaco, con la venuta

di Carlo di Borbone (1734) cominciò un

periodo di rinascita economica e di tranquillità

civile, che durò fino alla rivoluzione

francese ed ebbe parte di primo

piano nella formazione della Repubblica

Partenopea (1799). Tornati i Francesi di

Massena tutta la penisola fu investita dalla

grande attività riformatrice del Decennio.

Dopo la fine di Murat, il terzo ritorno dei

Borboni trovò la penisola rinnovata e prospera,

avviata a conquistarsi quella fama

turistica che ha ancora oggi. Poca eco vi

ebbero i primi moti risorgimentali; maggiori

adesioni si ebbero comunque nel

  1. Nella seconda guerra mondiale, fosse

o non fosse la protezione di Sant’Antonino,

Sorrento ha ben poco sofferto dei

bombardamenti terrestri, aerei e navali che

devastarono Napoli e Salerno.

ATANASIO MOZZILLO IN MEMORIA DI UN SIGNORE AMICO  ( Ricordo di Gino Doria )

IL SORRISO DI ERASMO EDIZIONI LUBRENSI MCMLXXXIV

intorno ai viaggiatori stranieri nel Sud, che mi decisi a vincere

quello che poteva definirsi un vero e proprio timore panico e reverenziale,

lo stesso che al giovane Doria, allora alle sue prime prove

nel campo degli studi, aveva ispirato il volto severo e barbuto di

Giuseppe de Blasiis. Mi tratteneva da questo incontro il inito del

personaggio nelle tante facce in cui lo presentava una bibliografia

che allineava i nomi più prestigiosi, ma anche i più ambigui delle

nostre lettere.

Era soprattutto a questi ultimi che dovevo un’immagine di

don Gino tanto lontana dalla realtà quanto lo era Doria dal narcisismo

di un racconto autobiografico alla Munthe ο alla Malaparte.

Il mito di Doria come ultimo hidalgo della napoletanità, il mito

di Doria che offre ai suoi ospiti pizze e caviale nel refettorio della

Certosa, il mito di Doria che è Napoli e il contrario di Napoli, ο

Napoli stessa in tutta la sua insidiosa duplicità: tutto questo insomma,

questa gabbia dorata costruitagli intorno per calcolo ο per

letterario esercizio, mi portava già a fermare don Gino tra i dati

di una acquisizione soltanto culturale.

Bastarono in verità pochi colloqui, lui dall’altra parte di uno

scrittoio impero, a Capodimonte, io ancora impacciato, ancora guardingo,

per dissipare quel velo sottile eppure tenace che mi divideva

da lui. E se queste note possono tediare chi legge e altro non vuole

se non una testimonianza su Doria, mi giustificherò affermando che

ogni incontro con don Gino, ogni pur breve consuetudine con lui

finiva per diventare, insensibilmente, bonariamente direi, un dato

della propria avventura spirituale; dono assai raro, concesso a quei

pochi che appunto per questa loro capacità di donare sono i soli

maestri che oggi si possono riconoscere.

Maestro di «agudeze erudite» e di mentali eleganze, come qualcuno

ha voluto definirlo, Doria è slato per noi, per lutti noi, qualcosa

di più: un esempio di rigore, di impegno civile, di uno stile di

vita profondamente aristocratico ed esclusivo, in una società, come

questa napoletana, pronta alla dimissione, al compromesso, alla indulgenza

programmatica. Aristocrazia reale dell’intelletto e dell’animo,

che, simile ai suoi antenati del ’99, lo spingerà ad assumere posizioni

inconcepibili per un letterato durante e dopo il ventennio

fascista. Tutta la sua opera è testimonianza di un grande coraggio,

di una coerenza che – un episodio tra gli altri – non gli farà perdonare

a Salvatore Di Giacomo di aver cancellato, nel 1925, e per

motivi facilmente comprensibili, dalla edizione definitiva delle sue

poesie la dedica a Benedetto Croce.

Ed è stato anche la città, una categoria dello spirito, Γ «essere

napoletano» nella sola accezione ammissibile, quella storicistica,

sentirsi cioè parte operante in una vicenda che sempre si rinnova

da noi stessi condizionata e voluta; sentirsi protagonisti, implicati

in una storia certamente singolare, favolosa talora, tanto da giustificare

chi, come Doria, dei suoi cittadini sente il bisogno di comprendere

il loro presente con il loro passato ο ancora studiare il loro passato

servendosi del presente. Ne nasce una storia fantastica, che

spesso vale a penetrare meglio di ogni più togata storiografia momenti

vicende e figure della città. Storia fantastica che non si risolve

nell’accettazione sciatta ο nella scaltra rielaborazione della mitologia

partenopea, ma si mostra più aperta, più disposta ad accogliere

sollecitazioni e occasioni minori, direi quasi di vita quotidiana,

come certe pagine dedicate al «napoletano che cammina», ο alla

memoria di scomparsi librai intorno a S. Chiara. Ο ancora, sia pure

su un altro piano di interessi, la descrizione di una biblioteca patrizia,

la rievocazione di un salotto ottocentesco, come quelli di

Francesco Antonio Berio ο di Augusto Craven; come, infine, la riesumazione

di antichi personaggi dimenticati in una delle tante pieghe

della nostra storia civile, e che salgono attraverso gli incisivi

ritratti di Doria a modelli esemplari della gente napoletana nel bene

e nel male. E così anche agli occhi del lettore meno avvertito si

verrà delineando una immagine nuova della città, e maggiore concretezza,

ma meglio diremmo spessore, acquista mercé la folla dei

particolari e il gusto dei dettagli il quadro ampio e sicuro tracciato

con attitudine di storico e maestria di scrittore nella Storia di una

Capitale e nell’arioso saggio dedicato alla Napoli del Settecento,

al suo rinato prestigio di grande metropoli europea. Immagine della

città da un habitus di cultura europea che rifugge da ogni cedimento

al colore, alla falsificazione letteraria, che non sa se vuole commuoversi

ο compiacersi delle vicende di «Totonno e’ Quagliarella»,

del «Re di Poggioreale» ο del Mago di Napoli. Doria non amava

parlare il dialetto, spregiava le iperboli e il suo discorrere mai chiese

ausilio al retaggio spagnolesco degli esclamativi partenopei.

Ma costui, si chiederà qualcuno, proprio costui avrebbe dovuto

essere il napoletano modello, l’essenza stessa della napoletanità,

costui che spregia Piedigrotta, va in bestia a sentire «Ό sole mio»,

due parole in dialetto non le dice, e se deve allontanare un «guaglio-

I

ne» importuno magari, alla Basilio Puoti, lo apostrofa con un bel

«va, fanciullo»? E in effetti questa perplessità possiamo anche capirla,

essendo il nostro ipotetico ma non irreale obiettore tra quei

centomila cittadini che Doria riteneva soli responsabili della immagine

stereotipa di Napoli, delle tante più ο meno diffamatorie

leggende sulla nostra ignavia, sulla nostra incostanza, sul disinteresse

nostro per ogni sentire politico, a tutto danno di altri novecentomila

napoletani «che somigliano a tutti gli esseri umani del mondo,

non cantano e non gesticolano, non praticano tumultuosamente l’amore,

non imbrogliano il prossimo, lavorano gioiscono e soffrono

in silenzio, han senno e senso morale».

A questi centomila, a questa massa che vede affiancati magliari

e gazzettieri, speculatori e camorristi, retori per calcolo ο per

vocazione, parvenus di ogni genere, a questi napoletani «veraci» ο

che tali amano definirsi, don Gino oppose il ((Napoletano che fra

maestro Colantonio e la enciclopedia paesistica di Giacinto Gigante

si inserisce così onorevolmente negli annali della pittura e quello che

porta la sua musica in tutte le corti europee. Il Napoletano che dai

cartesiani del ‘600 ai giansenisti del ‘700, dalla vulcanica genialità

di Bruno al profondo pacato antivedere di Giambattista Vico e da

Giannone e Cuoco, Galiani e Genovesi, a De Sanctis e a Croce, forgia

le cento e cento ininterrotte maglie della catena in cui insieme

con la vigorosa originalità del pensiero splendono purezza di vita,

dirittura morale e coraggio civile». Ed è a questo napoletano, a

questo modello di vita morale che Doria poteva ed egli stesso amava

riportarsi, quando agli improvvisati apologeti della «più grande Napoli

» opponeva la sua ascendenza borghese di toga e di dottrina, i

Doria che dell’esser loro gli sanno dar conto fin dal Settecento, antesignani

di quella «società di studi eleganti» postulata da Croce e

della quale don Gino fu forse uno degli ultimi adepti. Una società

severa ed ironica, forse un po’ sofisticata ed astratta, ma quel tanto

indispensabile, in una città come Napoli, a non cadere nelle reti

ovunque tese dalla calcolata indulgenza per ogni miseria, ogni compromesso,

ogni umana ο disumaua fralezza. Era una élite che si

rifiutava alla «barbarie del progresso» in nome di una tradizione

di civiltà e di umanità, e che, questo suo rifiuto, altrimenti sterile e

in fondo reazionario, pienamente giustificava con la fatalità storica

che sempre in questa nostra città ha eretto una «spessa muraglia

tra i pochi uomini di intelletto, i pochi illuminati e una plebe irrimediabilmente

sorda ad ogni voce della ragione».

Eppure, come osservava Nello Ajello, questa minoranza si

adatterebbe anche a sottomettere, se pur con dolore, le ragioni della

propria cultura – araldica e conservatrice per istinto – alle leggi del

‘progresso’, se questo non creaese puntualmente con sé, negli uomini

in cui sembra a volta a volta incarnarsi, il proposito di sostituire

alle glorie vere le false, alle tradizioni antiche e stagionate nello

spirito degli uomini le più grosse montature folcloristiche, alla suggestione

della storia le approssimative perorazioni di ciceroni d’accatto,

alle peculiarità architettoniche di una città antica gli ideali

estetici di una piccola schiera di ‘cafoni irriducibili’.

In queso schieramento, in verità assai più pugnace che numeroso,

Gino Doria costituì una presenza per molti versi singolare

giacché, soprattutto di fronte ai suoi più giovani amici, egli praticò

una fedeltà intransigente ai motivi della tradizione.

Così che mentre da una parte si è accennato, sia pure con indulgenza,

a una ambiguità di Doria, dall’altra si tentò, e nei modi

più vari, la ‘cattura’ di don Gino, la cui autorità di napoletano

antico ed autentico avrebbe dovuto avallare le tante improbabili

immagini di Napoli di volta in volta proposte da questo ο quel giornalista,

da questo ο quello scrittore in possesso della chiave magica

capace di spalancargli le porte invidiate della napoletanità. Si insisti

allora sul Doria gastronomo, paladino del «zoffritto», si inventò

un Doria borghese a cui subito si contrappose un Doria «socialista»,

e mentre qualcuno ritornò sull’affettuoso rievocatore di vicende e

genealogie patrizie, altri additarono in lui l’alacre scrutatore di vichi

e di fondachi. E ancora in lui scorsero il superstite unico di una

favolosa bella epoque, testimone dei fasti di Orilia e di Ricci, il

regale signore di una Napoli posseduta dall’alto della Certosa, da

quel famoso balcone al quale taluni suoi amici, peraltro a lui cari,

amavano scorgerlo enigmatico, silenzioso e in qualche modo annoiato

della incontenuta ammirazione dei suoi talora illustrissimi ospiti.

Immagini tra le meno probabili della ricca e contraddittoria

iconografia doriana; giacché le Tare volte che nella sua prosa signorile

ed ironica, nell’avara misura dei sentimenti esternati si apre

un varco e si indulge – ma per poco – alla commozione, è proprio

quando la città, la sua città, occupa la pagina. E allora guardiamola,

questa città, ma guardiamola, come Doria ci chiede, «venendo dal

mare, in un mattino di primavera, quando la bruma grigio-rosata

confonde le linee precise degli edilizi e soltanto rivela il contorno

ondeggiante della massa. Eccola – egli continua • che dorme, appoggiando

la testa al Capo di Posillipo, e i giardini che scendono

a mare ne sono le chiome disciolte». E ora penetriamo in questa

città, percorriamola con Doria, come Doria la «camminava» scoprendone

la storia segreta tra l’insula gesuitica e la Vicaria, tra le

clausure seicentesche e le dimore di Diomede Carafa ο di Raimondo

di Sangro. «Singolarissima fra le città illustri del mondo» d’un tratto

gli arcani suoi, di questa Napoli tanto restia alle definizioni esaurienti,

ci sembrano svelati, ora che è Doria a proporcene una lettura

attraverso la materia delle fabbriche, gli intonaci delle case, la flora

domestica dei balconi.

Per un momento leviamo lo sguardo alle grate che coronano

le massicce mura conventuali ο affondiamo in una corte settecentesca

decaduta a fondaco, brulicante ed oscuro, seguiamo ancora don Gino,

instancabile, attraverso arene e greti torrentizi, conquistiamo anche

noi le colline risalendo la rete di rampe e di scalinate, guardiamo

ancora questo caotico, precario, paradossale ammasso di pietra e di

stracci e continueremo a trovarci pur sempre nella città della favola,

perché «soltanto nel mondo fantastico è possibile che anche un primo

moto di repulsione si corregga in una ragione d’incanto».

Generico gennaio 2025

STRENNA 1984 PER GLI AMICI  DE IL SORRISO DI ERASMO