di lucio esposito
Massa Lubrense rende omaggio a Gino Doria: un evento per celebrare la sua eredità culturale
L’Archeoclub Massa Lubrense organizza, venerdì 3 gennaio alle ore 18.00, presso la Pro Loco di Massa Lubrense ,un evento in memoria di Gino Doria, figura di rilievo nel panorama culturale italiano. In occasione del cinquantesimo anniversario della sua morte, verrà presentato il volume a cura di Giovanni Visetti, un’opera che restituisce al pubblico la complessità e la ricchezza della figura di Doria, con particolare attenzione alle sue radici massesi.
Il volume, che si avvale di una vasta documentazione d’archivio, offre un ritratto intimo e approfondito di Doria, analizzandone la produzione scientifica, le passioni collezionistiche e il suo impegno civile. Attraverso la lettura di scritti inediti, sarà possibile apprezzare la versatilità e l’originalità di un intellettuale che ha lasciato un segno indelebile nella cultura napoletana e italiana.
RICORDANDO BIAGIO (Gino) DORIA NEL 50° ANNIVERSARIO DELLA MORTE
Un doveroso omaggio allo Zio illustre, un libro per caratterizzare il ricordo di un intellettuale, scrittore, giornalista napoletano con Massa Lubrense nel cuore.
«Zio Biagio, alias Gino Doria», il libro curato da Giovanni Visetti, pubblicato dalla sede Lubrense dell’Archeoclub d’Italia, verrà presentato venerdì prossimo, 3 gennaio, alle ore 18:00 presso la Pro Loco di Massa Lubrense. Dialogheranno con l’Autore Antonino Siniscalchi e Domenico Palumbo.
Biagio, Gino Doria (1888-1975), è stato giornalista, scrittore e storico italiano. Girò il mondo. Dal 1910 al 1918 trascorse una lunga permanenza in America Latina. Tornato a Napoli, collaborò con diversi giornali, fra i quali «Il Giorno» di Matilde Serao. Durante il fascismo, a causa di un articolo irriverente, fu radiato dalla professione giornalistica. In quegli anni, oltre ad un avvicinamento alle istanze e alle iniziative dell’antifascismo, che peraltro lo videro aiutare nel momento del bisogno Giorgio Amendola, rimontano i suoi rapporti di amicizia con Benedetto Croce e Salvatore Di Giacomo.
Direttore del Museo di San Martino, approfondito conoscitore di storia napoletana e sottile bibliofilo, come lo ricordava Guido Piovene, unì sempre, nella sua attività professionale, la stesura di articoli alla pubblicazioni di libri, nei quali si registra, in particolare nel periodo tra le due guerre, il passaggio dal contributo tipico dell’ordinata storiografia di stampo erudito allo stile di una scrittura che, pur rigorosa e sistematica, si faceva «micro-storiografia del divertissement».
Oltre a numerosi racconti, e a saggi di storia, aneddotica, arte e toponomastica campana, ha curato la pubblicazione di biografie e documenti inediti su Giuseppe Garibaldi e Anita Garibaldi, su Camillo Benso di Cavour e Gioacchino Murat, su Vittorio Imbriani, Benedetto Croce e su Carmine Crocco. Un apposito fondo archivistico a suo nome è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, alla quale lo stesso Doria donò oltre 10.000 volumi.
Per questa occasione la redazione cultura pubblica scritti di Gino Doria relativi alla Penisola Sorrentina in volumi ormai rari.
I TESORI
SADEA/SANSONI EDITORI
di Gino Doria
Nego fermamente che, per descrivere
le forme fiisiche e penestrare gli spiriti reconditi
di questa penisola sorrentina, sia
utile far ricorso alle scienze fisiche e morali
come la geologia e la paleontologia,
la teologia e l’astrologia, la mitologia e la
sua deformazione della storia; le quali
tutte, comunque adoperate, ad altro non
servirebbero se non a rendere grigia, pesante
e oppressiva l’immagine di un luogo
che si considera uno dei più belli se non
il più bello del mondo. Su questo splendido
corpo, invano insidiato dalle mostruose
deità del mondo moderno: la Necessità
e la Cupidigia, come stonerebbero
e sembrerebbero impropri, oltreché offensivi,
il dato cronologico, il computo statistico
e, Dio guardi, il precetto moralistico.
Credo, invece, che il miglior aiuto per
comprendere e far comprendere agli altri,
per sentire appieno l’incanto di questa
terra, sia l’immaginazione, o meglio ancora
la fantasia: questa immensa forma
intuitiva che — e chiamatela pure la pazza
di casa – sgretola le faticose costruzioni
dei dotti, irride ai documenti (che spesso
risultano poi falsi) e ignora le aride tabelle
della statistica, mentre perviene vittoriosamente
a ricrearsi intorno gli aspetti
del mondo antico, e anzi preistorico, così
come una macchina da presa inquadra
quelli del mondo moderno.
Soltanto la fantasia può guidarci nello
habitat favoloso dei nostri progenitori, e
questi mostrarci nella loro elementare felicità;
può rendere corporei quelli che si
consideravano come impalpabili miti, e
valga un esempio. Sappiamo, geologicamente,
che nei tempi più remoti l’isola
di Capri era congiunta alla penisola sorrentina;
un cataclisma, migliaia e migliaia
di anni fa, separò la penisola dall’isola
e il mare colmò l’abisso creato dalla
profonda frattura con quel meraviglioso
e inquieto canale che sono le « bocche di
dalla Punta del Capo, dove restano
i ruderi di una villa romana
popolarmente detta di Polito Felice.
Sullo sfondo la cornice dei Monti
Lattari.
Capri ». Un giorno lo attraversò un eroe
che appartiene, sì, alla storia del mito,
ma più e con imperitura validità alla storia
della poesia. È il furbo e accorto, nonché
animoso e prudente Ulisse, il quale sapeva
che quel mare era abitato dalle
Sirene, pericolose creature, mezzo donne e
mezzo pesci, le quali incantavano i navigatori
con il loro dolce canto e poi, istupiditi
che li avevano, li trascinavano sul
fondo marino e vi consumavano il più mostruoso
amplesso che la storia ricordi.
Conscio di tale pericolo l’uomo della petrosa
Itaca turò ai compagni gli orecchi
con la cera, perché non sentissero quei
canti e si fece legare all’albero maestro
per resistere all’impulso di buttarsi a mare
e raggiungervi la splendida metà muliebre
di quelle creature. Questa scena, che
parrebbe grottesca se la sua venerabile
antichità non le conferisse somma dignità,
è disegnata su un celebre vaso custodito
nel Britsh Museum. Senoché in, questa
figurazione, la più nota della iconografia
sirenica, i favolosi mostri non sono più
oceanici, mezzo donne e mezzo pesci, ma
aerei, mezzo donne e mezzo uccelli, anzi
arpie.
A me, napoletano autoctono, piate attenermi
alla versione ittiologica perché
sotto tale aspetto i miei concittadini venerarono
per secoli la sirena Parthenope
sepolta sul colle di Caponapoli; e perché
tale la vide un libraio del Seicento, il
franco-napoletano Antonio Bulifon, facendone
la marca tipografica delle sue edizioni.
Eppure sarebbe sforzare troppo la fantasia,
e subordinarla a sciocchi giuochi di
parole, se volessimo trovare la reviviscenza
del mito sirenico nelle bionde e muscolose
bellezze nordiche che, insieme con
le brune nostrane, vengono a immergersi
e sguazzare nelle onde ancora (ma per
quanto?) incorrotte delle coste di Capri
e della penisola. Meglio conviene, per
sentirsi più vicini al mondo della favola,
contemplare la bella e gagliarda gioventù
nativa che fra il litorale e la collina attende
alla pesca e all’agricoltura con quella
gaiezza che non si accompagna di solito
al lavoro. Quale differenza dalle popolazioni
finitime! Il portamento delle donne
è quasi regale, i giovani hanno gli scatti
guizzanti dei discoboli. In loro è la traccia
della origine greca, anzi teleboica, a
cui si andarono sovrapponendo e gli etruschi
e i sanniti, e Dio sa quali felici incroci
dalle incursioni barbaresche alle ondate
del turismo internazionale. Né si
creda che con ciò si voglia insinuare qualche
oltraggioso dubbio sulla onestà di
quelle donne; se un tempo dovettero subire,
rassegnate, la violenza degli incursori
mussulmani, più tardi con gli stranieri
di passaggio strinsero, molte volte,
della vecchia Inghilterra sono sotto lo
scettro di quelle che erano state agili componenti
della tarantella sorrentina!
La venustà e la grazia degli abitanti
sono il complemento della bellezza dei
luoghi, la quale è così mossa, così varia
e cangiante da mettere chi la percorra nel
più serio imbarazzo per una libera elezione.
Eccoci, per esempio, inizio della
penisola, nella operosa cittadina di Vico
Equense, che si affaccia sulla marina di
Equa e sulle correnti calde e fredde dello
Scraio. Ma noi, rivolto un reverente pensiero
a quel vescovo cittadino, monsignor
Natale, che tra i martiri della Repubblica
Partenopea (e perché non, anche, alla memoria
di Gaetano Filangieri, che meditò
le sue feconde riforme della legislazione
nel castello dei Conca, poi dei Giusso?),
noi, dunque, affrontiamo l’erta per raggiungere
uno dei luoghi più incantevoli
di questa terra, il valico di Santa Maria
del Castello, dominato e quasi atterrito
dalla incombenza della calcarea parete meridionale
del monte Sant’Angelo a tre
pizzi. Di quassù, come del resto in tanti
altri luoghi della penisola, si spiega sotto
lo sguardo dello smarrito osservatore il
doppio spettacolo dei golfi di Napoli e di
Salerno. A crear tutto ciò, per monoteisti
che possiate essere, dovrete ammettere
che cooperarono due dei. Uno, mite e benigno,
arcadico e sentimentale, dette vita
al golfo di Napoli e, infinitamente savio,
lo fece a guisa di cerchio e ne sbarrò l’entrata
con isole protettrici, e le ornò di
cale e seni sicuri, e gli diede la varietà
dalla bassura flegrea alle montagne dei Lattari,
e vi fece crescere la flora più vaga
e il più impenetrabile bosco era di aranci.
Ma il Dio che creò il golfo di Salerno
era un Dio corrucciato e terribile: precipitò
rocce su rocce, senza alcuna simmetria
e cura topografica, così che il golfo
nacque aperto e indifeso a tutte le vendette
del mare; e i monti accavallati, senza
humus, rimasero eternamente calvi, e il
mare selvaggio continua a mordere la costa,
povera di ripari.
Poiché, per l’indifferenza dei suoi amministratori,
la costa sorrentina non è
stata fornita né della comiche media né
della superiore, così noi procediamo a
piedi, per vie mulattiere e per sentieri alpestri,
verso i colli di San Pietro, dove
s’incontra la splendida nuova strada detta
« il nastro azzurro ». La sola ragione
per la quale abbiamo rinunciato a servirci
della più comoda, cioè carrozzabile, corniche
inferiore è questa: che di quassù
più vasto, ridente e istruttivo si snoda
il grande panorama che avremmo potuto
ammirare iniziando la discesa dalla punta
di Scutolo. Cogliamo, cioè, e comprendiamo
in un solo sguardo, la opulenta distesa
limitata a oriente da Meta e a ponente
dal capo di Sorrento: la plunities
dei Romani, donde il nome di Piano di
Sorrento, che è la Milano o la Torino
di questo lembo di terra, in tanta altra
parte idilliaco.
A Meta, nella Chiesa del Lauro, centinaia
di ex-voto marittimi ricordano glorie
e sacrifici navali di questa gente: grandi
ammiragli alla flotta borbonica ed a
quella nazionale, mercantili che solcarono
tutti gli oceani, come oggi alimentano gli
equipaggi delle superpetroliere. Ebbe, al
tempo di Murat, un istituto nautico oggi
incorporato al « Nino Bixio » di Piano,
fabbrica inesauribile di uomini di mare
sì di coperta che di macchina.
All’altro estremo, di là dal capo, si
svolge il territorio di Massalubrense, che
può considerarsi la perla della penisola,
anche se abbia subito violenze e brutture
quali il famigerato villaggio di San Montano;
ma il suo sistema orografico è così
vasto e variato che possono ancora scoprirvisi,
fra San Liberatore e la Punta della
Campanella, ove fu stanziato il culto di
Minerva, luoghi di estrema bellezza e di
sicuro riposo: almeno quel tanto di riposo
compatibile con la conclamante e non acclamata
civiltà meccanica dei giorni nostri.
Ma dovette, la saggia Pallade, cedere il
potere a una moltitudine di Madonne,
Santi e Beati che avvolsero l’intera penisola
di un’aura cristiana, profondamente
radicata nei cuori. Basti ricordare il grande
protettore di Sorrento, Sant’Antonino
che, apparendo in sogno a Sicardo di Benevento,
lo fece desistere dall’assedio di
Sorrento (835). E come, a contrasto e
per curiosità dei lettori, non ricordare
che nell’Abbazia di San Pietro, sopra Crapolla,
fu una volta ospite il diabolico
Pietro Aretino?
Al centro di questo meraviglioso pezzo
di terra ecco la sua incontestata capitale,
ecco Sorrento che si affaccia dall’alto
della sua falaise tufacea. La sua bellezza
e il suo carattere si confondono con
la sua storia, talvolta gloriosa come al
tempo del libero ducato (sec. IX) e talvolta
dolorosa per le reiterate incursioni
barbaresche, di cui la più mostruosa fu
quella del 1588. Ebbe due sedili nobili:
quello di Dominova ostenta ancora la sua
svelta grazia quattrocentesca, e diede la
vita a una schiera di uomini illustri dei
quali, i rimanenti trascurando, pur convenendo
che vi nascesse per caso, sovrasta
ogni altro Torquato Tasso. Denominazioni
ad alberghi, statue in piazza, raccolta
di libri nel Museo Correale, nomi imposti
a molti neonati non sono che i segni
esteriori della venerazione (qualche volta
dettata dal solo interesse) in cui il grande
poeta è tenuto dai suoi concittadini.
Saliti con Tasso alle alte vette della
poesia (sorrentino anche Bernardino Rota,
il tenero cantore dell’amor coniugale) potrebbe
sembrare sconcordante e irriguardoso
un richiamo alle prestazioni di un’altra
e non meno benefica dea: la Gastrea.
Ma qui tutto è così ben combinato ed armonico,
fra la bellezza dei luoghi e delle
persone, la poesia e l’arte, la natura e la
sua industre applicazione, che sembrerà naturale,
per non dire indispensabile, l’accenno
alle produzioni del suolo. La varietà
dell’altitudine consente il graduale
passaggio dai castagni e dai noci alla opulenta
ricchezza degli agrumi (aranci a Sorrento,
limoni a Massa), intermezzati dagli
argentei oliveti e dalle flessuose viti,
qui tenute alte. Né mi vergogno di riven-
da Capo Orlando. maiolicata della Chiesa dei Santi
Ciro e Giovanni, ricostruita
dell’Annunziata (Cattedrale). .
Ai piedi della rupe la Marina 5. Panorama di San Salvatore,
di Equa. nei pressi di Vico Equense.
6-7. Mela, Basilica della Madonna 9. Meta. Pozzo di maiolica
del Lauro. Bue delle 24 formelle in un cortile,
della porta lignea del XVI secolo,
raffiguranti i Misteri del Rosario.
del Lauro. Il fastoso barocco
dell’aitar maggiore.
dall’alto di uno dei caratteristici
valloni della costiera.
dicare, fra tanti e maggiori titoli onorifici,
la sapienza millenaria con la quale le
offerte della natura vengono trasformate
nella sapida pasticceria onde va superba
Piano, nei morbidi lattici di Vico e di
Massa, nel vino leggero e frizzante che ci
fa ricantare le strofe di Orazio.
Certo è ben lungo il passo dai tuffi delle
Sirene nel mare di Capri alle conquiste
e alle comodità della vita moderna; ma il
tempo non ha presa sulla bellezza, la quale,
come disse Keats, « è una gioia per
sempre ».
SINTESI STORICA
Il territorio di Sorrento entra nella storia
con la colonizzazione greca (la tradizione
indica nei Teleboi il popolo che avrebbe
dato origine alla città nel VII secolo
seguito alla vittoria dei Siracusani (battaglia
di Cuma, 474 a. C), entrò nell’orbita
dei vincitori. Verso gli inizi del IV
secolo a. C. venne conquistata dai Sanniti
e aggregata ad una delle confederazioni
campane, con capitale Nuceria Altaferna.
Vinti i Sanniti dai Romani (289 a. C), Sorrento
ne seguì le sorti restando coinvolta
nella seconda guerra punica. Occupata
(90 a. C.) durante la guerra sociale dall’esercito
sannita di Papio Mutilo, fu poi
riconquistata da Siila, che dette così inizio
alla romanizzazione definitiva della costa
sorrentina. Augusto vi dedusse una
colonia militare, e i patrizi la ricoprirono
di grandiose ville.
Dopo la caduta dell’Impero Romano
d’Occidente, passata ai Bizantini, che riuscirono
a difenderla dall’attacco dei Longobardi,
prima, dei Saraceni, poi, fece parte
del Ducato di Napoli, e solo in epoca
piuttosto avanzata cercò di riconquistare
la propria autonomia, trovando appoggio
negli Amalfitani e, successivamente, nel
principato longobardo di Salerno. Nella
prima metà del X secolo era comunque sotto
la giurisdizione napoletana. Nel 979
ottenne un proprio magistrato supremo
col titolo di « praefectus et fortior ». Nel
1039 il duca di Salerno Guaimario V se
ne impadronì e ne affidò il comando al
fratello Guido. Dopo gli anni burrascosi
seguiti all’uccisione di Guaimario nel 1068
cominciò il governo autonomo di un Sergio,
e poi di un suo figlio che si intitolò
« princeps surrentinorum ». Ma caduta
in potere di Ruggero II (1133), seguì
da allora le sorti della monarchia meridionale.
La dominazione normanna segnò
un periodo di intenso sviluppo economico
e sociale, che portò a una forte
rivalità con le cittadine vicine e tra i diversi
ceti sociali. Aspre lotte si ebbero
soprattutto sotto Federico II. Caduta la
dinastia sveva Sorrento parteggiò per gli
Angioini contro gli Aragonesi. Alla morte
di Giovanna I, fu fedele ai Durazzeschi.
Si ribellò poi a Giovanna II, sia al riaprirsi
della lotta tra Angioini e Durazzeschi
(1420) sia alla rottura dei rapporti
tra la regina e Alfonso V d’Aragona, che
la diede in feudo a Gabriele Correale. Rimase
tuttavia costante l’ostilità verso gli
Aragonesi. Nel 1489 tutta la riviera era
unita sotto la signoria di Giovanna d’Aragona,
figlia di Ferdinando il Cattolico,
alla quale tornò anche nel 1496, dopo la
partenza di Carlo Vili. Agli inizi del ‘500,
nonostante la strenua resistenza, tutto il
regno meridionale cade sotto il dominio
spagnolo, che durerà un secolo e mezzo:
periodo tormentato e di grande decadenza.
Alla venuta del Lautrech e di Andrea Doria,
Sorrento e le altre città della costa
si affiancarono subito ai Francesi. Severa
fu perciò la successiva repressione degli
Spagnoli, a cui si aggiunge il nuovo pericolo
delle incursioni barbaresche. Riuscì
invece ad evitare, anche se ad alto prezzo,
l’infeudamento.
Nel 1648 Sorrento fu assediata dal genovese
Giovanni Grillo, mandato dal duca
di Guisa, e fu salvata solo dall’intervento
delle milizie vicereali al comando di Cesare
Carafa. Trascorso senza fatti di rilievo
il viceregno austriaco, con la venuta
di Carlo di Borbone (1734) cominciò un
periodo di rinascita economica e di tranquillità
civile, che durò fino alla rivoluzione
francese ed ebbe parte di primo
piano nella formazione della Repubblica
Partenopea (1799). Tornati i Francesi di
Massena tutta la penisola fu investita dalla
grande attività riformatrice del Decennio.
Dopo la fine di Murat, il terzo ritorno dei
Borboni trovò la penisola rinnovata e prospera,
avviata a conquistarsi quella fama
turistica che ha ancora oggi. Poca eco vi
ebbero i primi moti risorgimentali; maggiori
adesioni si ebbero comunque nel
o non fosse la protezione di Sant’Antonino,
Sorrento ha ben poco sofferto dei
bombardamenti terrestri, aerei e navali che
devastarono Napoli e Salerno.
ATANASIO MOZZILLO IN MEMORIA DI UN SIGNORE AMICO ( Ricordo di Gino Doria )
IL SORRISO DI ERASMO EDIZIONI LUBRENSI MCMLXXXIV
intorno ai viaggiatori stranieri nel Sud, che mi decisi a vincere
quello che poteva definirsi un vero e proprio timore panico e reverenziale,
lo stesso che al giovane Doria, allora alle sue prime prove
nel campo degli studi, aveva ispirato il volto severo e barbuto di
Giuseppe de Blasiis. Mi tratteneva da questo incontro il inito del
personaggio nelle tante facce in cui lo presentava una bibliografia
che allineava i nomi più prestigiosi, ma anche i più ambigui delle
nostre lettere.
Era soprattutto a questi ultimi che dovevo un’immagine di
don Gino tanto lontana dalla realtà quanto lo era Doria dal narcisismo
di un racconto autobiografico alla Munthe ο alla Malaparte.
Il mito di Doria come ultimo hidalgo della napoletanità, il mito
di Doria che offre ai suoi ospiti pizze e caviale nel refettorio della
Certosa, il mito di Doria che è Napoli e il contrario di Napoli, ο
Napoli stessa in tutta la sua insidiosa duplicità: tutto questo insomma,
questa gabbia dorata costruitagli intorno per calcolo ο per
letterario esercizio, mi portava già a fermare don Gino tra i dati
di una acquisizione soltanto culturale.
Bastarono in verità pochi colloqui, lui dall’altra parte di uno
scrittoio impero, a Capodimonte, io ancora impacciato, ancora guardingo,
per dissipare quel velo sottile eppure tenace che mi divideva
da lui. E se queste note possono tediare chi legge e altro non vuole
se non una testimonianza su Doria, mi giustificherò affermando che
ogni incontro con don Gino, ogni pur breve consuetudine con lui
finiva per diventare, insensibilmente, bonariamente direi, un dato
della propria avventura spirituale; dono assai raro, concesso a quei
pochi che appunto per questa loro capacità di donare sono i soli
maestri che oggi si possono riconoscere.
Maestro di «agudeze erudite» e di mentali eleganze, come qualcuno
ha voluto definirlo, Doria è slato per noi, per lutti noi, qualcosa
di più: un esempio di rigore, di impegno civile, di uno stile di
vita profondamente aristocratico ed esclusivo, in una società, come
questa napoletana, pronta alla dimissione, al compromesso, alla indulgenza
programmatica. Aristocrazia reale dell’intelletto e dell’animo,
che, simile ai suoi antenati del ’99, lo spingerà ad assumere posizioni
inconcepibili per un letterato durante e dopo il ventennio
fascista. Tutta la sua opera è testimonianza di un grande coraggio,
di una coerenza che – un episodio tra gli altri – non gli farà perdonare
a Salvatore Di Giacomo di aver cancellato, nel 1925, e per
motivi facilmente comprensibili, dalla edizione definitiva delle sue
poesie la dedica a Benedetto Croce.
Ed è stato anche la città, una categoria dello spirito, Γ «essere
napoletano» nella sola accezione ammissibile, quella storicistica,
sentirsi cioè parte operante in una vicenda che sempre si rinnova
da noi stessi condizionata e voluta; sentirsi protagonisti, implicati
in una storia certamente singolare, favolosa talora, tanto da giustificare
chi, come Doria, dei suoi cittadini sente il bisogno di comprendere
il loro presente con il loro passato ο ancora studiare il loro passato
servendosi del presente. Ne nasce una storia fantastica, che
spesso vale a penetrare meglio di ogni più togata storiografia momenti
vicende e figure della città. Storia fantastica che non si risolve
nell’accettazione sciatta ο nella scaltra rielaborazione della mitologia
partenopea, ma si mostra più aperta, più disposta ad accogliere
sollecitazioni e occasioni minori, direi quasi di vita quotidiana,
come certe pagine dedicate al «napoletano che cammina», ο alla
memoria di scomparsi librai intorno a S. Chiara. Ο ancora, sia pure
su un altro piano di interessi, la descrizione di una biblioteca patrizia,
la rievocazione di un salotto ottocentesco, come quelli di
Francesco Antonio Berio ο di Augusto Craven; come, infine, la riesumazione
di antichi personaggi dimenticati in una delle tante pieghe
della nostra storia civile, e che salgono attraverso gli incisivi
ritratti di Doria a modelli esemplari della gente napoletana nel bene
e nel male. E così anche agli occhi del lettore meno avvertito si
verrà delineando una immagine nuova della città, e maggiore concretezza,
ma meglio diremmo spessore, acquista mercé la folla dei
particolari e il gusto dei dettagli il quadro ampio e sicuro tracciato
con attitudine di storico e maestria di scrittore nella Storia di una
Capitale e nell’arioso saggio dedicato alla Napoli del Settecento,
al suo rinato prestigio di grande metropoli europea. Immagine della
città da un habitus di cultura europea che rifugge da ogni cedimento
al colore, alla falsificazione letteraria, che non sa se vuole commuoversi
ο compiacersi delle vicende di «Totonno e’ Quagliarella»,
del «Re di Poggioreale» ο del Mago di Napoli. Doria non amava
parlare il dialetto, spregiava le iperboli e il suo discorrere mai chiese
ausilio al retaggio spagnolesco degli esclamativi partenopei.
Ma costui, si chiederà qualcuno, proprio costui avrebbe dovuto
essere il napoletano modello, l’essenza stessa della napoletanità,
costui che spregia Piedigrotta, va in bestia a sentire «Ό sole mio»,
due parole in dialetto non le dice, e se deve allontanare un «guaglio-
I
ne» importuno magari, alla Basilio Puoti, lo apostrofa con un bel
«va, fanciullo»? E in effetti questa perplessità possiamo anche capirla,
essendo il nostro ipotetico ma non irreale obiettore tra quei
centomila cittadini che Doria riteneva soli responsabili della immagine
stereotipa di Napoli, delle tante più ο meno diffamatorie
leggende sulla nostra ignavia, sulla nostra incostanza, sul disinteresse
nostro per ogni sentire politico, a tutto danno di altri novecentomila
napoletani «che somigliano a tutti gli esseri umani del mondo,
non cantano e non gesticolano, non praticano tumultuosamente l’amore,
non imbrogliano il prossimo, lavorano gioiscono e soffrono
in silenzio, han senno e senso morale».
A questi centomila, a questa massa che vede affiancati magliari
e gazzettieri, speculatori e camorristi, retori per calcolo ο per
vocazione, parvenus di ogni genere, a questi napoletani «veraci» ο
che tali amano definirsi, don Gino oppose il ((Napoletano che fra
maestro Colantonio e la enciclopedia paesistica di Giacinto Gigante
si inserisce così onorevolmente negli annali della pittura e quello che
porta la sua musica in tutte le corti europee. Il Napoletano che dai
cartesiani del ‘600 ai giansenisti del ‘700, dalla vulcanica genialità
di Bruno al profondo pacato antivedere di Giambattista Vico e da
Giannone e Cuoco, Galiani e Genovesi, a De Sanctis e a Croce, forgia
le cento e cento ininterrotte maglie della catena in cui insieme
con la vigorosa originalità del pensiero splendono purezza di vita,
dirittura morale e coraggio civile». Ed è a questo napoletano, a
questo modello di vita morale che Doria poteva ed egli stesso amava
riportarsi, quando agli improvvisati apologeti della «più grande Napoli
» opponeva la sua ascendenza borghese di toga e di dottrina, i
Doria che dell’esser loro gli sanno dar conto fin dal Settecento, antesignani
di quella «società di studi eleganti» postulata da Croce e
della quale don Gino fu forse uno degli ultimi adepti. Una società
severa ed ironica, forse un po’ sofisticata ed astratta, ma quel tanto
indispensabile, in una città come Napoli, a non cadere nelle reti
ovunque tese dalla calcolata indulgenza per ogni miseria, ogni compromesso,
ogni umana ο disumaua fralezza. Era una élite che si
rifiutava alla «barbarie del progresso» in nome di una tradizione
di civiltà e di umanità, e che, questo suo rifiuto, altrimenti sterile e
in fondo reazionario, pienamente giustificava con la fatalità storica
che sempre in questa nostra città ha eretto una «spessa muraglia
tra i pochi uomini di intelletto, i pochi illuminati e una plebe irrimediabilmente
sorda ad ogni voce della ragione».
Eppure, come osservava Nello Ajello, questa minoranza si
adatterebbe anche a sottomettere, se pur con dolore, le ragioni della
propria cultura – araldica e conservatrice per istinto – alle leggi del
‘progresso’, se questo non creaese puntualmente con sé, negli uomini
in cui sembra a volta a volta incarnarsi, il proposito di sostituire
alle glorie vere le false, alle tradizioni antiche e stagionate nello
spirito degli uomini le più grosse montature folcloristiche, alla suggestione
della storia le approssimative perorazioni di ciceroni d’accatto,
alle peculiarità architettoniche di una città antica gli ideali
estetici di una piccola schiera di ‘cafoni irriducibili’.
In queso schieramento, in verità assai più pugnace che numeroso,
Gino Doria costituì una presenza per molti versi singolare
giacché, soprattutto di fronte ai suoi più giovani amici, egli praticò
una fedeltà intransigente ai motivi della tradizione.
Così che mentre da una parte si è accennato, sia pure con indulgenza,
a una ambiguità di Doria, dall’altra si tentò, e nei modi
più vari, la ‘cattura’ di don Gino, la cui autorità di napoletano
antico ed autentico avrebbe dovuto avallare le tante improbabili
immagini di Napoli di volta in volta proposte da questo ο quel giornalista,
da questo ο quello scrittore in possesso della chiave magica
capace di spalancargli le porte invidiate della napoletanità. Si insisti
allora sul Doria gastronomo, paladino del «zoffritto», si inventò
un Doria borghese a cui subito si contrappose un Doria «socialista»,
e mentre qualcuno ritornò sull’affettuoso rievocatore di vicende e
genealogie patrizie, altri additarono in lui l’alacre scrutatore di vichi
e di fondachi. E ancora in lui scorsero il superstite unico di una
favolosa bella epoque, testimone dei fasti di Orilia e di Ricci, il
regale signore di una Napoli posseduta dall’alto della Certosa, da
quel famoso balcone al quale taluni suoi amici, peraltro a lui cari,
amavano scorgerlo enigmatico, silenzioso e in qualche modo annoiato
della incontenuta ammirazione dei suoi talora illustrissimi ospiti.
Immagini tra le meno probabili della ricca e contraddittoria
iconografia doriana; giacché le Tare volte che nella sua prosa signorile
ed ironica, nell’avara misura dei sentimenti esternati si apre
un varco e si indulge – ma per poco – alla commozione, è proprio
quando la città, la sua città, occupa la pagina. E allora guardiamola,
questa città, ma guardiamola, come Doria ci chiede, «venendo dal
mare, in un mattino di primavera, quando la bruma grigio-rosata
confonde le linee precise degli edilizi e soltanto rivela il contorno
ondeggiante della massa. Eccola – egli continua • che dorme, appoggiando
la testa al Capo di Posillipo, e i giardini che scendono
a mare ne sono le chiome disciolte». E ora penetriamo in questa
città, percorriamola con Doria, come Doria la «camminava» scoprendone
la storia segreta tra l’insula gesuitica e la Vicaria, tra le
clausure seicentesche e le dimore di Diomede Carafa ο di Raimondo
di Sangro. «Singolarissima fra le città illustri del mondo» d’un tratto
gli arcani suoi, di questa Napoli tanto restia alle definizioni esaurienti,
ci sembrano svelati, ora che è Doria a proporcene una lettura
attraverso la materia delle fabbriche, gli intonaci delle case, la flora
domestica dei balconi.
Per un momento leviamo lo sguardo alle grate che coronano
le massicce mura conventuali ο affondiamo in una corte settecentesca
decaduta a fondaco, brulicante ed oscuro, seguiamo ancora don Gino,
instancabile, attraverso arene e greti torrentizi, conquistiamo anche
noi le colline risalendo la rete di rampe e di scalinate, guardiamo
ancora questo caotico, precario, paradossale ammasso di pietra e di
stracci e continueremo a trovarci pur sempre nella città della favola,
perché «soltanto nel mondo fantastico è possibile che anche un primo
moto di repulsione si corregga in una ragione d’incanto».
STRENNA 1984 PER GLI AMICI DE IL SORRISO DI ERASMO