Alla ricerca di Ferdinando Sanfelice, l’architetto nobile aristocratico che restaurò nel primi decenni del settecento il Duomo di Amalfi e degli amalfitani oggi nel cuore di Napoli.
L’inizio del miglio sacro,per chi arriva da via Foria, o la fine del percorso per chi proviene dal Cimitero delle Fontanelle è il Palazzo Sanfelice e il palazzo De Liguori, con l’edicola dei tre santi Alfonso, Vincenzo e Anna, che danno il nome all’antica Pizzeria di Concettina. Non si può passeggiare in questi luoghi senza fermarsi a gustare la pizza di Ciro Oliva , ultimo, delle 4 generazioni di maestri pizzaioli, come non si può apprezzare l’estro di questo maestro se non si è visto il Palazzo Sanfelice e De Liguori, summa massima del barocco settecentesco napoletano.
Sant’Alfonso, da giovane studente arriva qui ospite di un cugino per studiare a Napoli e per prendere lezioni di pittura dal maestro Solimene, e vi lascia il segno, il più santo dei napoletani, il più napoletano tra i santi.
Sanfelice, invece prima restaura un vecchio palazzo acquisito, poi ne costruisce un altro più grande, lui, artista e architetto di tante cose in giro per Napoli e in Puglia ove il fratello Antonio è vescovo a Nardò, costruisce una casa che è pietra miliare nella storia dell’arte e dell’architettura non solo campana. Incanta ancora oggi è incanterà, naso all’insù e macchina fotografica in mano, folle di turisti e appassionati, registi cinematografici e attori di teatro.
Tale premessa per comprendere le estrosità, il menù e il tipo di pizzeria che è quella di Concettina ai tre santi,ultimo titolare, Ciro Oliva,che è uscito in strada è si è guardato intorno, ha letto e compreso la lezione della storia e dell’arte e della comunicazione. Si è permesso di stracciare una pizza a metà e servire un mezzo ripieno e una mezza pizza in un solo passaggio, non ci vuole molto ad accostarla alla scala ad ali di falco di Sanfelice, se la guardi con attenzione simmetrica e non la vedi solamente. L’omaggio alla sacralità del luogo lo leggiamo e lo gustiamo in quella che si chiama la pizza gialla,consigliata nel menu di assaggio da Maitre Vittorio, pomodorino giallo del Vesuvio, “faccia giallut”, il volto d’oro di san Gennaro nel busto argenteo di a Etienne Godefroy, Guillame de Verdelay e Milet d’Auxerre nel 1305.
Altra pizza interessante è chiamata Fondazione San Gennaro. Richiamo qui la festa ebraica del Sukkot, o delle capanne, per ricordare alle nuove generazioni il pellegrinare biblico del popolo. Ebbene l’ingrediente principe della pizza Fondazione San Gennaro è il tarallo sbriciolato, le cigole e il salame, la tradizione culinaria napoletana antica oggi irripetibile per certi aspetti, ma propinata in nome del sapore con maestria e giusto dosaggio.
Interessante qui, anche il bere intelligente, il sommelier Emanuele La Bagnara, ha abbracciato la croce di convertire una comune accezione popolare che è quella di accompagnare la pizza con la birra. Sarebbe una contraddizione ricercare lieviti madre, farine integrali e di grano italiano, per poi innaffiarli con un prodotto lievitato e lievitante. Emanuele ha creato con il beneplacito di Ciro Oliva una cantina piccola e corposa che comprende anche vini della costa Amalfitana come Marisa Cuomo e Tenuta San Francesco, con risultati incredibili, incomodando gli stellatori Gambero Rosso ed altri, ha premiarlo per questo esperimento ben riuscito.
pizza gialla