Positano. Costiera amalfitana . Il 17 marzo 1938 nasceva il più libero, magnetico e talentuoso danzatore classico del Novecento. Rudolf Nureyev cambiò le regole della danza classica richiamando folle oceaniche nei teatri, destò entusiasmi per un’arte che pareva rétro, eccitò la curiosità dei cronisti con la sua magnifica superbia. “Chi non conoscerà mai il piacere di entrare in una sala con delle sbarre di legno e degli specchi – scrisse nella famosa Lettera alla Danza poco prima di morire – chi smette perché non ottiene risultati, chi ha sempre bisogno di stimoli per amare o vivere, non è entrato nella profondità della vita, e abbandonerà ogni qualvolta la vita non gli regalerà ciò che lui desidera. È la legge dell’amore: si ama perché si sente il bisogno di farlo, non per ottenere qualcosa o essere ricambiati, altrimenti si è destinati all’infelicità. Io sto morendo, e ringrazio Dio per avermi dato un corpo per danzare cosicché io non sprecassi neanche un attimo del meraviglioso dono della vita”
Nureyev fu affascinato dalla bellezza di Positano e acquistò qui l’ Isola de I Galli. Forse è stato il più grande uomo che ha calcato questo angolo della Costa d’ Amalfi . Un uomo che ha attraversato la Storia, ha danzato verso la libertà liberandosi dall’oppressione della Russia comunista dittatoriale, ha spezzato catene e affermato il genio e la classe. Su di lui tante cose si raccontano, della sua ombrosità a volte, che non aveva mai però nella sua isola dove ballava a piedi nudi e amava toccare l’acqua, della sregolatezza in famose feste nella Villa di Franco Zeffirelli ad Arienzo ed altro ancora.. Positano dovrebbe ricordarlo maggiormente e non solo per un sabato all’anno con un Premio della Danza , dedicato a Massine , proprietario anche lui de I Galli prima di Rudolf, che la Regione Campania ci mette sempre in dubbio, nonostante sia una delle più importanti appuntamenti culturali d’ Europa e del mondo.
Di Lui ne parla in un bellissimo articolo Repubblica a firma di Leonetta Bentivoglio.
Se il ballerino-mito del Novecento Rudolf Nureyev fosse in vita, festeggerebbe i suoi ottant’anni proprio adesso, il 17 marzo. Ma come si può pensare a un ‘Rudy’ anziano e distante dal suo habitat, cioè dal palcoscenico? Forse l’idolo Nureyev, a causa di una tragica investitura di destino, ‘doveva’ morire precocemente – e infatti se ne andò a 55 anni. Di certo è stato il più libero, magnetico e talentuoso danzatore classico del secolo scorso. Oggi non esiste un suo autentico erede. Le stravaganze del ‘personaggio’ Sergej Polunin, ballerino ucraino rivoltoso e tatuato, hanno indotto qualcuno a segnalare analogie. Ma sul piano artistico non c’è confronto. Per essere Nureyev non bastano i capricci di un Polunin: ci vogliono genio, sfaccettature e una montagna di carisma.
Rudolf, a suo tempo, seppe fare della danza classica un territorio pop: richiamò folle oceaniche nei teatri, destò entusiasmi per un’arte che pareva rétro, eccitò la curiosità dei cronisti con la sua magnifica superbia. Senza la sua foga da guerriero, il balletto sarebbe rimasto un’arte polverosa ed élitaria. Lo si è paragonato a stelle intramontabili dell’immaginario collettivo come Maria Callas, Marilyn Monroe e James Dean: non solo per l’aura di celebrità in grado di scavalcare i confini del suo linguaggio, ma per il modo di bruciarsi dentro il tempo e di estinguersi prima del corrompersi della bellezza. Procedimento che gli permise di lasciare al mondo una memoria di sé che resta fascinosa all’infinito.
Fuggitivo per definizione, Nureyev nacque all’insegna del dinamismo: sua madre lo partorì il 17 marzo del 1938 su un treno in corsa, dentro un vagone della Transiberiana, mentre stava raggiungendo il marito, militare sovietico di stanza in Estremo Oriente. La sua famiglia era di origine tartara e musulmana. E l’autoritario padre, che odiava la danza e i peccatori che la praticavano, contrastò subito la sua evidente vocazione, nella quale scorgeva rischi di omosessualità. Cresciuto nel conflitto e nell’isolamento, Rudolf sviluppò un’indole tormentata.
In ogni caso non cedette: prima affrontò gli atletismi della danza folcloristica; poi, relativamente tardi per un ballerino classico, intraprese lo studio della danza “seria” a Leningrado sotto la guida di Aleksandr Pushkin, che tra il ’55 e il ’58 gli diede il rigore accademico. Ingaggiato come solista nella compagnia del Kirov, dimostrò in fretta la sua bravura, esplosa agli occhi del pubblico internazionale dopo la sua rocambolesca fuga in Occidente, avvenuta in Francia durante una tournée del Kirov. Fu il primo transfuga di una lunga serie di campioni che via via avrebbe incluso suoi connazionali quali Baryshnikov, Makarova e Godunov. Per anni circolò pedinato dalle spie del Kgb, ombre detestabili della sua patria, e contro i comunisti lanciò sempre acide invettive. Eppure non si affrancò mai dalla nostalgia per la sua terra, manifestata con l’enorme commozione del suo primo ritorno in Russia, nell’87.
Per la sua favolosa ascesa degli anni Sessanta fu determinante l’incontro professionale con Margot Fonteyn. Lei comprese che quell’artista prodigioso, di vent’anni più giovane, avrebbe nutrito di nuove linfe la sua carriera. Lui capì che quella lady raffinata avrebbe favorito il suo ingresso nella cultura d’Occidente. Insieme allo stupendo ballerino Erik Bruhn, grande amore della vita di Nureyev, Margot fu la persona che diede maggiore completezza alla sua arte, distillando le sue fiammate in un senso nobile della misura.
Un’altra sua magica partner fu Carla Fracci, con la quale formò una coppia indimenticabile. Oggi, dalla sua casa di Milano, la ballerina italiana intende sfatarne la fama di divo arrogante: “In realtà era corretto e generoso”, sostiene. “Poteva esplodere in sfuriate e dimostrare toni bruschi, ma sulla scena alimentava di energie meravigliose la sua partner. E io lo percepivo come un giovane fondamentalmente timido e tenero”. Carla rammenta certe sue strane confidenze: “Mi raccontava di sognare spesso sua madre che saliva su una scala i cui gradini erano fatti di pane”. Al suo fianco ballò i titoli più significativi del repertorio: “Facemmo Giselle, Il lago dei cigni, Coppelia, Don Chisciotte. Ma lo spettacolo al quale sono più legata è il suo Schiaccianoci, la cui coreografia è terribilmente impegnativa. Avevo a disposizione solo cinque giorni per imparare il ruolo. Stavo per rinunciare ma Rudy insistette per coinvolgermi, pur avendo a disposizione altre ballerine. Ci chiudemmo in sala-prove per ore e ore, e lui m’insegnò il balletto passo dopo passo con determinazione furiosa”. L’esito fu un trionfo, ottenuto anche dal Romeo e Giulietta che danzarono alla Scala e a New York: “Rudy mi spiegò che Giulietta non era una fanciulla innocente bensì una donna intensa e appassionata, e che nel suo slancio per Romeo non c’era nulla di adolescenziale”.
Fracci coglie il nucleo del discorso: con Nureyev il balletto scoprì la forza del teatro, svelò un’allure che allontanava i graziosismi passatisti e aprì squarci inediti sull’interpretazione maschile. Anche solo camminando, entrando in scena sommesso, o poggiando sulla spalla il lembo di un mantello (“sembrava una pantera”, dice Carla), l’accigliato e regale Rudolf trasmetteva un senso vivo dello stare in scena. Non smise mai d’interrogarsi sul “recitar danzando”: ciò che il balletto aveva avuto di lezioso o ovvio, con lui giunse ad eclissarsi. Basta coi principini sdolcinati: le figure acquisivano psicologie complesse.
Da fiero anticonformista, Nureyev ammirò Martha Graham, la capofila della “modern dance” americana, e ne volle danzare i perimetri angolosi: fu la prima star con un background classico che decise di viaggiare sui binari del contemporaneo. Dall’83 fino all’87 guidò la compagnia dell’Opéra di Parigi, a volte sfiancandola col suo atteggiamento dispotico. Ciò nonostante fu un direttore audace e preveggente, che scoprì e lanciò, all’interno dell’ensemble parigino, una generazione di talenti straordinari, tra cui spicca soprattutto Sylvie Guillem.
Inoltre arricchì il patrimonio dell’Opéra con le coreografie di autori non convenzionali come Merce Cunningham, Lucinda Childs e Twyla Tharp. Fu anche un efficace “riproduttore” di balletti storici, firmando belle versioni dei massimi capisaldi. La sua ultima impresa fu una sontuosa riedizione de La Bayadère, un kolossal ottocentesco di charme esotico che allestì a Parigi nell’autunno del 1992. Al termine dello spettacolo, quando si presentò in proscenio per ricevere gli applausi, indossava broccati da sovrano boiardo. Magrissimo ed evanescente, pareva il fantasma di se stesso. Quasi non stava in piedi: erano i ballerini della compagnia a sostenerlo. Tuttavia emanava ancora una luce conturbante. Ormai devastato dall’Aids, morì all’inizio dell’anno successivo.