Riprendiamo da Surrentum , l’articolo di Antonino De Angelis, sulla cantata dei pastori, appropriato per questo periodo natalizio e dettagliato nella storia delle compagnie teatrali.
Scritta nel 1698 da Andrea Perrucci la “Cantat5a dei pastori” è rimasta viva nella tradizione natalizia fino a costituire, nel comprensorio sorrentino, un evento che si associa e completa il ricco teatro rituale religioso. Uno spettacolo che, come il presepe, dall’esterno dei luoghi sacri, esprime in maniera plastica la religiosità popolare. I personaggi sono colti in cammino verso Betlemme dove Giuseppe accompagna Maria per il compimento della sua gravidanza. La loro vicenda si intreccia con quella di Razzullo, uno scrivano inviato in Oriente per il censimento della popolazione. La figura di questo strano individuo reca le sembianze e gli atteggiamenti di un napoletano costantemente afflitto dalla fame. Sono personaggi insidiati dai demoni degli inferi e difesi dalla mano divina. La farsa e il dramma legano insieme i temi della commedia e della rappresentazione sacra seicentesca. Lo spettacolo si ambienta nelle campagne della Galilea in uno scenario d’arcadia tutto mediterraneo dove vive il vecchio pastore Armenzio coi suoi figli Cidonio e Benino, il primo cacciatore e l’altro imberbe pastorello. Presso il fiume troviamo Ruscellio, giovane pescatore. Una masnada di diavoli capeggiati da Belfegor, ben istruiti da Pluto, segue passo passo Giuseppe e Maria per ostacolare l’imminente nascita del loro bambino. Belfegor pone sul cammino dei due viandanti trappole e impedimenti puntualmente rimossi dall’arcangelo Gabriele. In tale disputa è coivolto lo scriba napoletano , che nel frattempo si ingegna nei più svariati mestieri per soddisfare il suo perenne appetito. Intato lungo il cammino deve affrontare una serie di ostacoli frapposti dal maligno. Di volta in volta si ritrova rapito dai briganti, coinvolto in un naufragio e minacciato da un serpente velenoso nascosto in una grotta. Nel corso del tempo al personaggio comico di Razzullo é stato aggiunto quello di Sarchiapone un omuncolo storpio e ridicolo che coi suoi lazzi ravviva la scena e spesso coinvolge il pubblico con le sue gag surreali e divertenti. Al testo del Perrucci sono stati aggiunti poetici monologhi inseriti come perle nella sceneggiatura: tali sono “la solitudine di Ruscellio” e “l’oracolo della Sibilla” affidato all’arcangelo Gabriele, recitati quasi sempre col sottofondo struggente del violino. Razzullo e Sarchiapone spesso recitano a soggetto sfociando nella satira sui fatti curiosi dell’attualità o a danno di personaggi noti del paese meritevoli di sfottò, ciò con grande partecipazione e sollazzo del pubblico che conoscendo le situazioni comiche ne anticipa le battute. Lo spettacolo inizia e si conclude in una grotta, l’antro buio degli inferi dove nel prologo Pluto raduna i diavoli e dove, nella scena finale, nasce il Verbo Incarnato davanti al bue e l’asinello dipinti sul fondo. La scenografia è molto semplice: tre quadri per i tre atti costruiti con cartoni e teloni formano i fondali e le quinte dipinte alla buona. Il primo quadro riproduce una grotta di cartone e fa da sfondo alla scena iniziale delle tenebre e quella finale della luce dove, nella mangiatoia, il verbo divino si fa uomo. Il fondale del primo atto rappresenta una campagna attraversata da un sentiero che dal fondo del palcoscenico con un balzo prospettico corre verso un bosco lontano. Ingenui effetti speciali trasformano l’ambiente in un finto mare tempestoso su cui si abbattono tuoni e saette simulate dallo scuotimento di un gong e dallo sfarfallio delle luci della ribalta. Musiche sacre spesso accompagnano il passaggio dalla commedia ai mo- menti lirici della sacra rappresentazione. La recitazione degli attori dilettanti oscilla fra i toni incerti e quelli stentorei dove qualche volta l’arbitraria lettura della punteggiatura altera il senso dei dialoghi. Negli anni successivi al secondo dopoguerra, per iniziativa dei circoli parrocchiali e altre associazioni giovanili furono costituite parecchie compagnie che nel periodo natalizio mettevano in scena la cantata, in locali improvvisati nella terra santa delle chiese e nei capannoni industriali. La filodrammatica di Sant’Agnello operava negli anni cinquanta nella sala del nuovo cinema San Giuseppe. In quegli anni i ruoli comici di Sarchiapone e Razzullo erano affidati a Ziripilio’e’Fonzi Rossi’, due simpaticoni molto noti in paese; il primo, Antonio Gargiulo, era un uomo piccolo e tondo come una trottola, vispo e brioso; il secondo, al secolo Alfonso Russo, dominava la scena con disinvolta eleganza, uomo distinto e navigato, abituale frequentatore del Salone Margherita, il teatro di avanspettacolo posto nell’ipogeo della galleria Umberto di Napoli. Sul palcoscenico come nella vita era un grande improvvisatore, volentieri lascia il vernacolo del copione per infilare nell’eloquio eleganti battute in lingua. Prima della chiusura del sipario, dopo la battuta finale di rito avanzava nel proscenio per salutare il pubblico con quella che era la sua sigla: “A roseca d’ ‘o munno, una filastrocca piena di ironia, una summa della maldicenza popolare sempre pronta a criticare gli atteggiamenti et le abitudini del prossimo. Sono scene e atmosfere rimaste a lungo nella memoria collettiva e di chi ancora oggi rivive la magia del Natale attraverso la visione di quest’opera teatrale che, ideata a Napoli, affonda le sue radici nella commedia dell’arte .